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RIP • Si è spenta ieri a New York all’età di novant’anni il mezzosoprano protagonista della Golden Age del Metropolitan. Trascorse la seconda parte della sua vita a Venezia
di Elena Filini
[laquo]Il personaggio che mi rappresenta di più è Carmen. Come lei mi sento libera e forte». Così Regina Resnik si raccontava nell’ultima intervista avvenuta l’agosto 2011 e mai pubblicata, in un lussuoso appartamento tra la VI e la VII Avenue. Ieri, con una mail privata, la notizia della scomparsa del celebre mezzosoprano ebreo. “Spiacienti, amici, Regina è volata via. È il trapasso di una grande donna e la fine di un’epoca”. Nata nel Bronx da una famiglia ebra russa il 9 agosto 1922, al debutto con la compagnia dei giovani alla Metropolitan Opera nella stagione 1944-45 ha legato la sua affermazione ai maggiori ruoli veristi e verdiani. Al debutto nel ruolo di Leonora nel Trovatore, in sostituzione di Zinka Milanov (prova preparata in 24 ore), fu Santuzza e Aida di voce “ampia e luminosa” (così Irvin Kolodin in The History of Metropolitan Opera).
Nel 1955 il coraggioso passaggio alla corda mezzosopranile, che decretò il suo definitivo successo. Dopo il completo ritiro dalle scene per un anno e le lezioni con il baritono Giuseppe Daniese, Regina ritorna in scena confermando ed anzi accrescendo il suo successo in ruoli come Amneris, La Principessa Eboli, Sieglinde, Mrs. Quickly, Dalila. Carmen, futuro ruolo icona della Resnik, fissato nella celebre edizione Decca con Mario Del Monaco e Joan Sutherland per la direzione di Thomas Schippers (Ginevra, del 1963) fu uno dei principali motivi di dissapore con Rudoph Bing, potentissimo manager del Met. La gitana avrebbe infatti potuto diventare il ruolo icona della Resnik, destinata a protrarre la tradizionale aurea di Risë Stevens, ma il general manager si ostinava a darle parti di fianco, così Regina prese la strada dell’Europa. La sua enorme versatilità le consentì di cantare nei principali ruoli verdiani, wagneriani e straussiani. L’ultima fase della carriera la vede infine legata a Broadway, con due nomination per Cabaret e A Little Night Music.

In Italia, Regina arriva con assiduità all’inizio degli anni Settanta. Il debutto veneziano avviene nel 1971 al Gran Teatro La Fenice di Venezia dove interpreta il ruolo di «Clitennestra» in Elektra di Richard Strauss, producendosi anche come regista dell’allestimento, con le scene del celebre pittore lituano Arbit Blatas, suo secondo marito. A Venezia finisce per essere legata la seconda parte della sua vita. Dopo aver acquistato una casa atelier all’isola della Giudecca con Blatas, la Resnik accelera le prove come didatta internazionale e regista, dividendosi tra stati Uniti ed Europa. Gli anni Ottanta vedono infatti master a New York, Salisburgo, alla Fenice di Venezia. Ma il grande capolavoro di Regina è la co-creazione (insieme a Peter Maag) della Bottega internazionale per giovani cantanti lirici avvenuta al teatro comunale di Treviso alla fine degli anni Ottanta.
Il Corriere Musicale la ricorda con alcuni stralci dell’ultima intervista newyorkese, raccolta in due lunghi pomeriggi il 28 e il 29 luglio 2011.
«Sono sempre stata una donna volitiva. Vengo da una famiglia numerosa, siamo una razza che ha sempre dovuto combattere, ho studiato in scuole pubbliche – anzi posso dire di essere un buon esempio del funzionamento della scuola pubblica in Usa. Per me cantare è stato anche e soprattutto il mio lavoro. Non si resiste quarant’anni sul palcoscenico se non si ha determinazione, buonsenso e grande disponibilità alla fatica. Ci sono repertori poi che non esiterei a paragonare alle Olimpiadi. Strauss per esempio.» Così una lucida Regina Resnik, alle soglie dei novant’anni, racconta senza incertezze il lungo intermezzo di una vita totalmente dedicata al teatro. Ma senza retorica, con il ben noto piglio bellicoso ed audace. Si commuove invece guardandosi intorno. La sua casa atelier, in una strada secondaria tra la VI e la VII avenue è disseminata di quadri di Arbit Blatas. «Siamo entrambi ebrei, ci ha unito questo forte senso di lateralità. Arbit ha provato la diaspora, la violenza dei campi di concentramento. Io sono stata più fortunata. In questa casa newyorkese e nella nostra casa veneziana abbiamo costruito un legame fatto di passioni, visioni artistiche comuni; i suoi quadri e le mie interpretazioni sono facce diverse di una stessa medaglia.» Sorprendentemente, pur dando un’idea opposta alla modestia, la signora Resnik non ama parlare dei suoi innumerevoli successi. Preferisce portare il visitatore in una stanzetta laterale, dove tra scaffali e libri un ampio desk poggia un pc che la diva maneggia con grande familiarità. A caso seleziona la «Chanson Bohème» da Carmen e poi «Mrs. Schneider» di Cabaret. «Cosa ne pensa lei?» è la sua semplice domanda. «Libertà, spazio interno e attenzione quasi spasmodica alla risonanza» scandisce subito.
Sui presunti misunderstanding col Met preferisce glissare. Certo, se Rudolph Bing l’avesse maggiormente valorizzata, l’Europa avrebbe perso i suoi Strauss e Wagner, o i Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc o ancora i grandi ruoli contraltili verdiani, con una particolare nota di merito per Mrs. Quickly. Il discorso più spinoso, e c’era d’aspettarselo, riguarda quell’anno di black out dove la vecchia Regina soprano lascia il campo alla nuova Regina mezzosoprano. «Beh non la farei tanto lunga» ribatte «è successo anche a Shirley Verrett. Lei ha continuato una coesistenza secondo me non facile, io ho acceso il tasto mezzosoprano e mi sono concentrata nel trarre il meglio da quella corda». Poi però entra nel dettaglio di quell’anno di lavoro con il baritono Giuseppe Pennisi. Anno doloroso, dove al rischio seguì un grande successo. «Ancora non sapevo che i fatti mi avrebbero dato ragione» ricorda «però la sensazione di non sentirmi più nei miei panni era chiara. Quando scendevo nella prima ottava avvertivo che si apriva una voragine di voce, un senso di spalancamento che non trovava un corrispondente in comodità nel registro acuto. Non era un fatto di estensione, ma di tessitura». Alle lezioni di Pennisi, nel dopoguerra considerato a New York il chirurgo delle voci, Regina lega un altro ricordo. È quello di Mario Del Monaco, suo futuro partner in molte fortunate produzioni, fino alla celebre Carmen firmata Decca del 1963. «Era un uomo bellissimo e molto ricercato dal gentil sesso. Per questo motivo aveva sempre alle calcagna la moglie Rina, donna peraltro dotata di eccellente senso dell’umorismo, necessario alla sopravvivenza in quel costante assedio. C’è da dire anche che Mario non disdegnava.»
Se si desidera entuasiasmarla, bisogna spostare la discussione sulla sua ultima trasformazione. Quella di regista e docente. «Ho sempre pensato che tutti quegli anni di teatro avrebbero potuto generare qualcosa di più della semplice interpretazione. Io sono sempre stata interessata all’opera come fatto globale, quindi la regia è stata un passo quasi consequenziale», spiega. «Ad un certo punto però ho deciso di rispondere alle richieste che mi venivano anche nel campo della didattica, prima con master episodici di cui era limitatatmente contenta. La folgorazione è avvenuta con Treviso, dove ci siamo trovati in una situazione favorevole a veder sorgere una bottega sul modello rinascimentale, un centro dove prendevamo per mano le giovani leve fino al debutto, creando un carattere e una fisionomia a quelle che fino a poco tempo prima potevano parere soltanto belle voci». Dal 1989 con Peter Maag, Regina Resnik è stata l’anima della Bottega (salvo qualche intervento di Leyla Gencer, alla quale non la legava esattamente una calda amicizia). E, dopo la riapertura del Teatro, più che settantenne, la signora Resnik è tornata con energia ed entusiasmo fino al 2009. «Anche se qui a New York ho tanti progetti, tra cui un documentario sul ghetto ebraico di Venezia da realizzare insieme a mio figlio (il tenore Michael Philip Davis), l’Italia mi manca molto, mi manca il teatro di Treviso» confidava con una nota d’amaro. Le sue ultime cure furono rivolte alla casa veneziana. «È una casa stupenda, con un balcone sulla laguna magnifico. Era il rifugio mio e di Arbit: avevamo due studi speculari. In uno io cantavo e facevo lezione, nell’altro lui dipingeva. Ora desidero vendere quel luogo. Ho già provveduto ad inviare i quadri di Blatas a Vilnius, donandoli alla pinacoteca nazionale. Ma ho ancora tutti i miei spartiti, le locandine, documenti di anni ed anni di lavoro creativo che non so davvero che fine faranno» sospirava. Consola sapere che oggi quei materiali sono stati messi in sicurezza e raccolti – per interessamento del musicologo Marco Beghelli – nell’archivio dedicato alla storia della lirica del DAMS di Bologna.
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Intervista e pezzo molto belli. Ho avuto modo di conoscere ed apprezzare la Grande Regine quando dal 1967 al 1982 vivevo negli Usa