
Recensione • La grande orchestra conferma la perfezione tecnica in un concerto tutto mozartiano. L’identità artistica messa a punto sotto la direzione di Rattle, tuttavia, fa rimpiangere quella antica, e sbilancia la storica concorrenza a favore dei Wiener e della Staatskapelle di Dresda
di Francesco Lora
IBerliner Philharmoniker escono sul palcoscenico del Grosses Festspielhaus, la mattina del 25 agosto, per il loro primo concerto nel cartellone del Festival di Salisburgo: e per chi ha confidenza col contesto musicale austro-tedesco, questo gesto così naturale fa ora uno strano effetto. La stranezza deriva dal fatto che, fino all’anno scorso, in quello spazio i Berliner erano padroni di casa tanto quanto i Wiener, gli uni in residenza durante il Festival di Pasqua, gli altri durante il Festival estivo (dove i Berliner sono nondimeno ospiti fissi accanto alle più insigni altre orchestre). Ora che il Festival di Pasqua ha nella Staatskapelle di Dresda la sua nuova orchestra residente, sul palcoscenico salisburghese i Berliner paiono vieppiù stretti tra quelle che, nel mondo germanico, sono le loro due più temibili compagini rivali. Questa strettezza è sì metaforica, ma anche riscontrabile e degna di un qualche approfondimento: se l’altrui opinione sarà sempre benvenuta e se il giudizio qui presentato evaporerà in breve, il concerto in questione dà tuttavia spunti utili di riflessione.
Vezzo di Abbado e poi puntiglio di Rattle è stato quello di “filologizzare” stile e tecnica dei Berliner
Programma monografico. Tutto Mozart e tutte sinfonie, le tre ultime (e celeberrime) composte una dopo l’altra nell’estate 1788: la n. 39 in Mi bemolle maggiore, la n. 40 in Sol minore e la n. 41 in Do maggiore. Concertatore è Sir Simon Rattle, il quale dirige senza podio, senza partitura e senza bacchetta; si direbbe che voglia mimetizzarsi tra i suoi strumentisti, un Berliner tra i Berliner, se a differenza di questi non fosse anche senza frac. Al suo ruolo di direttore musicale, e alla continuità con la precedente direzione musicale di Claudio Abbado, si deve l’attuale identità artistica dell’orchestra berlinese, testimoniata dalle collaborazioni con concertatori e solisti, e dal tipo di approccio stilistico e tecnico al repertorio.
Ciò significa una responsabilità alta come poche altre. Un rapido confronto di casi ricorrendo alle compagini già citate. I Wiener sono un caso anomalo di orchestra sublime e ribelle, che da ottant’anni rifiuta la nomina di un direttore principale e che collabora con i più grandi al costo di guardarli dall’alto in basso, siano essi (o siano stati) finanche un Carlos Kleiber, un Seiji Ozawa o un Franz Welser-Möst. La Staatskapelle di Dresda ha invece alle spalle una tradizione antichissima, condizionata nel secondo dopoguerra dal regime della DDR, e nella sua storia colleziona un fitto avvicendamento di tutori; negli ultimi vent’anni: Giuseppe Sinopoli, Bernard Haitink, Fabio Luisi e Christian Thielemann. Ma il caso dei Berliner è a sua volta diverso: pesa la tradizione, poi recentemente interrotta, di intendere a vita il ruolo di direttore musicale, e pesa il fatto che l’ultimo signore assoluto sia stato Herbert von Karajan, insuperato alchimista del suono più fastoso, e indiscusso arbitro di esposizione massmediatica. Conclusa l’era-Karajan, i Berliner hanno affidato prima ad Abbado e poi a Rattle non solo la cura di loro stessi, ma la loro stessa reinvenzione.
Ed è qui che, con l’ennesima testimonianza del nostro concerto salisburghese, un bilancio sull’attività svolta dai Berliner negli ultimi vent’anni rilascia tante luci quante ombre. Vezzo di Abbado e poi puntiglio di Rattle è stato quello di “filologizzare” stile e tecnica dei Berliner, facendo loro dismettere il consueto turgore romantico almeno fino a tutto Beethoven. Ed ecco allora lo snellimento dell’organico, il ripensamento delle arcate, il travestimento o la sostituzione di ottoni, legni e timpani con strumenti di fattura antica, e così via. Un lavoro meritorio, poiché attento alla giusta informazione storica sul testo e sull’esecuzione musicale, e poiché attento alle tendenze esecutive che si sono imposte negli ultimi trent’anni in modo particolare. Un lavoro che, tuttavia, in parallelo con quello dei Nikolaus Harnoncourt, dei Christopher Hogwood, dei René Jacobs e delle loro orchestre con strumenti originali, non ha saputo tenere il passo dei signori puri della filologia esecutiva (retroguardia compresa), in ampia parte limitandosi alla forma senza lambire il contenuto.
I dodici movimenti delle tre sinfonie mozartiane ascoltate a Salisburgo, dunque, sono scorsi uno dopo l’altro con sconcertante uniformità di carattere, deponendo l’impasto sostanzioso in favore di una certa anemia timbrica, giocando assai di dinamica e riducendo il vibrato, ma senza che le frasi recuperassero in direzione, luminosità, arguzia. Se tante volte a chi scrive è piaciuto qualificare come edenico il Mozart filologizzante di Abbado, quello adiacente di Rattle suona invece positivistico, esanimato, posto sotto un microscopio che indaga il particolare minimo senza troppo interessarsi alla vitalità dell’insieme. Persino quando Sir Simon, nel Finale della Sinfonia n. 41, giunge a sollecitare alcune entrate della fuga con la violenza di un pugno chiuso: ciò che ne vien fuori non differisce troppo da ciò che egli estrae ficcando l’indice tra le file dell’orchestra.
Quanto ai Berliner, non si mettono qui in discussione la perfezione d’attacco degli archi, l’adamantino dialogare dei legni, la disciplina ferrea degli ottoni. Ma con una certa nostalgia viene in mente quando – gennaio 2005: non più che un ricordo personale – Rattle dirigeva il Parsifal di Richard Wagner allo Staatsoper di Vienna: i Wiener, poco inclini all’ubbidienza, onoravano sì la sua richiesta di filigranare la gigantesca partitura, ma non rinunciavano a riversarvi dentro i riverberi dell’oro, gli aromi dell’incenso, la sontuosità del broccato; la “Scena dell’agape”, nel braccio di ferro tra Rattle e i Wiener, diveniva un’esperienza sensoriale e intellettuale completa. I Berliner già di Karajan, invece, con Rattle si macchiano di un solo peccato: miopi sul loro rombante passato, scendono a troppa ubbidienza.