Opera • Negli utimi sei anni hanno diretto la regìa del titolo verdiano Chailly, Barenboim e Meir Wellber. L’altra sera sul podio della Scala Gianadrea Noseda con un ottimo cast
di Luca Chierici
SE GIUSEPPE VERDI AVEVA COMPIUTO IL MIRACOLO di creare una partitura come quella di Aida senza essere mai stato in vita sua in Egitto, trasponendo in musica quella che dell’Egitto era l’idea che il pubblico ottocentesco si era fatta attraverso la letteratura e un’iconografia sempre più carica di simboli, così Franco Zeffirelli nel suo lavoro andato in scena alla Scala a partire dal 2006 e riproposto ancora l’altra sera ha trasposto scenicamente il libretto di Ghislanzoni rendendo palesemente visibili tutti i simboli, le statue, i costumi, gli ori che lo spettatore tradizionale pretende siano mostrati in gran quantità in una produzione che si rispetti. Niente Aida “minimal”, quindi, in una rappresentazione che fu sempre criticata per l’horror vacui e che fa immediatamente pensare a una messa in scena “all’Arena di Verona” zippata in un palcoscenico pur capiente come quello del teatro milanese. L’ideale per un certo pubblico straniero che l’altra sera gremiva la Scala e di conseguenza un titolo che potrebbe a ragione essere inserito nel cartellone della “stagione dell’Expo”. Questa volta nella regia di Zeffirelli si è forse apprezzata di più la scelta di affiancare alle scene di massa (al termine del secondo atto si è colti da un leggero sintomo di soffocamento) altri momenti nei quali lo spazio è interamente lasciato ai singoli, a sottolineare la contrapposizione tra le scene corali di giubilo e di guerra e il complicato intreccio di affetti che coinvolge Aida, Radames, Amneris e Amonasro.
Gianandrea Noseda, buon ultimo dopo Chailly, Barenboim e Meir Wellber che erano stati co-protagonisti dello spettacolo di Zeffirelli negli ultimi sei anni, ha in parte seguito la visione trionfalistica del regista e scenografo, separando nettamente però la componente musicale d’impatto più eclatante da quella che commenta i momenti narrativi più intimi. Che Noseda sia un direttore di prima classe lo si è del resto capito ancora una volta già dal Preludio, che in comune con altri incipit verdiani famosissimi (Traviata, Simon Boccanegra, eccetera…) compie la magia di riassumere in poche battute tutta l’atmosfera e la tinta dell’opera. Ma è stato soprattutto negli ultimi due atti che il direttore ha potuto concentrarsi maggiormente su certi particolari del tessuto orchestrale raggiungendo degli esiti espressivi davvero ragguardevoli.
Tutto sommato il motivo di maggior interesse della serata risiedeva nel valore di gran parte del cast. Innanzitutto la protagonista, Hui He, perfettamente in ruolo e dotata di una voce bellissima: la sola che esibisse tutte quelle capacità di fraseggio che movimentano la linea di canto con una grande varietà di accenti. A seguire l’Amneris di Ekaterina Semenchuk, che però non era così affascinante come la collega e si muoveva sui binari di una tradizione eccellente ma un poco scontata. Ambrogio Maestri, amatissimo dal pubblico scaligero, ha dato una prova vocalmente ineccepibile, ed è stato convincente nella misura in cui non si pensi sempre inevitabilmente a lui nei panni di Falstaff. Ci si aspettava insomma che il suo Amonasro intonasse un «Riconosco Bardolfo!» al posto del «Dei faraoni tu sei la schiava!», come a dire che Maestri sembra spesso dimostrare quanto scarsa sia la specificità dei ruoli da lui interpretati. Sarebbe stato inoltre opportuno evitare che gli venisse calato in testa un parruccone di capelli ricci, francamente ridicolo, e che maggior cura si fosse posta nello stendere sulla di lui cute il colorante di rito che trasforma cantanti, coro e ballerini in perfetti esemplari di egizi ed etiopi. Marco Berti è sicuramente collaudatissimo nel ruolo di Radames, ma è un Radames che grida il suo amore, grida il proprio desiderio di difesa della patria e non cessa di mantenere un fortissimo con tre effe neppure nella mortale prigione. Volume di suono eccezionale? Si, d’accordo, ma da utilizzare quando è strettamente necessario. E il finale di «Celeste Aida», con la sua brusca interruzione, sempre ovviamente in fortissimo, faceva rimpiangere il soave, lungo diminuendo che qui sfoggiava il Luciano nazionale.
Non si può concludere la cronaca della serata senza ricordare con ammirazione il contributo fondamentale del corpo di ballo, con particolare menzione di merito al ruolo della sacerdotessa Akhmet, voluto da Zeffirelli e interpretato da una ieratica Deborah Gismondi, alla coppia di danzatori selvaggi (Beatrice Carbone e Marco Agostino) e agli allievi della scuola di ballo dell’Accademia, sfrenati piccoli schiavi mori.
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