
Speciale Biennale • 57° Festival Internazionale di Musica Contemporanea: la seconda direzione artistica di Ivan Fedele. I «Leoni» alla compositrice russa Sofija Gubajdulina e alla Fondazione Spinola Banna per l’Arte. Ecco i concerti che abbiamo ascoltato
di Simeone Pozzini
ÈCOME BRUTALE CEMENTO A VISTA il suono prodotto dagli archi e dal rotore degli elicotteri necessari per l’esecuzione di Helicopter Streichquartett di Karleinz Stockhausen, composizione che ha aperto il 57° Festival di Musica Contemporanea intitolato “Altra voce Altro spazio” della Biennale di Venezia con la direzione artistica di Ivan Fedele. Il compositore italiano lo dirige dallo scorso anno e vi rimarrà fino al 2015. Il Festival è il luogo che getta ponti tra i linguaggi della contemporaneità, illuminando di significato zone oscure del presente; ogni direttore artistico vi imprime il proprio segno, qui più che altrove nei festival novecenteschi di storica memoria. Una Biennale che a noi è parsa coerente e piena di interesse, iniziata in un modo decisamente spettacolare ma evidentemente necessario al disegno d’insieme, con qualche zona “morta” che funziona più sulla carta che non sul palcoscenico; per il resto “razionale” come il suo direttore artistico, ricordando anche il decennale della scomparsa di Luciano Berio e l’omaggio a Giuseppe Verdi curato dai musicisti dei Conservatori di Venezia, Rovigo e Vicenza. Soprattutto la consegna del Leone d’oro alla compositrice russa Sofija Gubajdulina, e il Leone d’argento alla Fondazione Spinola Banna per l’arte. Chi scrive ha avuto modo di seguire le prime giornate di programmazione.
“Altro voce Altro spazio”: Fedele vi lascia l’intarsio della spazializzazione, tema caro al Novecento (da Gruppen di Stockhausen a Persephassa di Xenakis – quest’ultima era in programma) e suo rovello compositivo di ventennale durata, testimoniato anche da alcune composizioni recenti quali La pierre et l’étang (…les temps…) e Pentalagon Quintet. E poi, oltre allo spazio, c’è “l’altra voce”: se lo spazio della musica cambia, la sua proiezione sonora avrà altri registri.

Testimonianza di questo binomio è stato il primo concerto del Festival, venerdì 4 ottobre al Lido, che ha visto protagonista la composizione-performance, nata in un sogno, Helicopter Streichquartett. Il Quartetto Arditti è dedicatario dell’opera. Ci racconta Irvine Arditti che dopo aver corteggiato Stockhausen per molto tempo circa la possibilità di scrivere una composizione per la propria formazione, il risultato non è stato esattamente il brano agevole che il Quartetto si aspettava di poter inserire nel proprio repertorio. Infatti, solo in Italia, questa risulta essere la seconda esecuzione. Ma Stockhausen non ha mai affrontato le forme della tradizione come dati di fatto e, al posto di quattro sedie in un caldo e comodo teatro, ha fatto trovare piloti con elicotteri, un sofisticato e tecnologico sistema di regia del suono e corrispondente tecnico, una partitura divisa in quattro parti (all’inizio con componenti aleatorie e poi sincroni ben precisi) nelle quali le traiettorie del volo diventano ad un certo punto parte stessa della composizione. I musicisti salgono rispettivamente su quattro elicotteri diversi con parecchio materiale tecnologico: la performance viene trasmessa e assemblata dai tecnici del suono per il pubblico in sala. Il tutto funziona se la chiave di lettura è quella di un mix tra tecnologia e arte. Se Stravinskij aveva alienato dai quartetti d’archi tutta la dialettica tematica anche tardo ottocentesca, Stockhausen dà il colpo di grazia. L’attività onirica del compositore forse non è documentata come quella di Federico Fellini, ma ci consegna una composizione controversa di grande suggestione. Prima del sogno che ha prodotto Helicopter, scritta tra il 1992 e ’93, Stockhausen sognò di bussare incessantemente ad una grande porta, la porta del paradiso, a lui negato. Nacque la composizione per percussioni Himmels-Tür, dal ciclo “Lang”. Helicopter ha un fortissimo impatto visivo e può essere vista come una composizione che testimonia gli studi sulla drammaturgia del suono.

Il momento clou della prima giornata è avvenuto con la cerimonia di conferimento dei premi. Alla presenza di Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia, e del direttore artistico Ivan Fedele, è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera a Sofija Gubajdulina; nata nel 1931, compositrice spirituale e con un tocco naïf, certo ha pagato insieme ad altri la voglia di modernità negata da un regime che non ha permesso l’emancipazione delle singolarità poetiche. Alla “Fondazione Spinola Banna per l’Arte”, luogo di crescita didattica e di musica contemporanea, il Leone d’argento. Il concerto della serata, presso il Teatro alle Tese, ha visto l’accostamento di due versanti compositivi slavi, pagine estremamente articolate: Glorious Percussion (2008) di Gubajdulina in prima esecuzione italiana e la Terza sinfonia (1981-83) di Witold Lutosławski. Il bravo Jonh Axelrod ha diretto l’Orchestra del Teatro La Fenice con Les Percussions de Strasbourg. Concerto di grande livello. Di Glorius Percussion, Concerto per percussioni e orchestra, abbiamo apprezzato la dimensione cameristica in un disegno sinfonico più ampio. Micro episodi orchestrali alternati ai necessari paragrafi solistici.

Ritroviamo il Quartetto Arditti nuovamente protagonista del concerto pomeridiano del 5 ottobre presso Ca’ Giustinian. Il programma accostava lavori per quartetto d’archi di giovani compositori al Quinto dell’americano Elliott Carter, scomparso nel 2012 a centotrè anni, che di quartetti se ne intendeva visto che ha vinto il Pulitzer due volte (con il Secondo nel 1960 e nel 1973 con il Terzo). Carter è inarrivabile: padroneggia il quartetto d’archi al punto di creare densità che vanno dall’origami al petrolio sonoro. Abbiamo quindi ascoltato la prima esecuzione assoluta di Grado di Andrea Portera (1973) su commissione della Biennale di Venezia, le prime esecuzioni italiane di Rhymes (2012) di Evis Sammoutis (1979) e Fletch (2012) di Rebecca Saunders (1967). Il brano dell’italiano Portera è quello che ci ha convinti di più: pagine quasi schizzi, eppur chiare, complete, timbricamente interessanti nella loro dimensione di miniature. Apprezzabile l’impegno formale in Fletch, ma l’esito sonoro risulta forse un po’ appesantito e con poca direzionalità.

Il Teatro Piccolo Arsenale ha successivamente ospitato “Visioni”, un progetto di Eric Maestri con musiche di Daniele Ghisi e lo stesso Maestri per ensemble, elettronica, luci, e oggetti in scena. Interpreti l’Ensemble L’Imaginaire. L’installazione utilizzava tutta la profondità possibile del palcoscenico per un elaborato paesaggio di oggetti che si animavano in termini sonori e visivi, con proiezioni di luci. Al termine del ciclo è subentrato l’ensemble. Non ci è dato sapere se nell’innesto tra il tecnologico e l’umano esista una relazione e di quale tipo. L’ascolto della parte musicale, quella che qualcuno chiama neo-semplicità, lascia francamente perplessi. Gli aggregati armonici non hanno sapori d’interesse e diventano persino prevedibili nell’alternanza degli episodi del vibrafono e pianoforte su una sorta di bordone creato da sassofono e flauto. Si può apprezzare l’aspetto tecnologico, se vogliamo vedere questa installazione come un tassello verso l’idea di spazio sonoro. Oppure l’aspetto filosofico (già superato) da loro stessi dichiarato: «Se ciò che vediamo produrre il suono fosse falso, se sembrasse la sorgente ma non lo fosse?». Quindi ottima considerazione, in linea con il tema del Festival, tuttavia a nostro avviso non l’esito.

Ci spostiamo al Teatro alle Tese per il concerto che ha visto protagonista l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, diretta da Roberto Abbado, e l’annesso Coro di voci bianche dello stesso teatro diretto da Alhambra Superchi, il soprano Valentina Coladonato. In programma due composizioni di Luciano Berio nel decennale della scomparsa (Epiphanies e Rendering) e la prima esecuzione assoluta di Fonofania di Claudio Ambrosini (commissione della Biennale di Venezia). Partiamo proprio da quest’ultima, stupenda composizione. Per chi conosce la poetica di Ambrosini sarà più facile trovare elementi vicini all’alfabeto di Rondò di forza rispetto, per esempio, alla drammaturgia sonora della Passione secondo Marco. Fonofania è un neologismo e comprende la “lallazione” delle parole da parte di un bambino. Ma anche i suoni dell’orchestra sembrano esplorare un mondo primordiale, magico, incantato. A metà composizione circa si insinua il coro di voci bianche, inaspettatamente collocato dietro la platea, creando per qualche secondo un effetto di inconoscibilità della fonte sonora. Anche in questo lavoro l’elemento di spazializzazione del suono crea coerenza rispetto alla tematica portante del Festival. Epiphanies di Berio, la cui ultima revisione è stata fatta nel 1991, testimonia il periodo dell’alea del compositore italiano. Rendering: ovvero Berio reinventa gli schizzi della Sinfonia D 936 di Schubert. Forse proprio in quest’ultima pagina, in una performance comunque buona, Roberto Abbado ha peccato un po’ di routine: per esempio non sempre (vistosamente) insieme i primi violini. Bene il coro di voce bianche, bello il timbro e l’espressività del soprano Coladonato, certamente non aiutato in quanto a potenza dall’acustica del Teatro alle Tese.

Il primo concerto dedicato integralmente a Sofija Gubajdulina si è tenuto domenica 6 nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian. Il programma era dedicato alla produzione cameristica della compositrice e nello specifico ai suoi lavori per contrabbasso solo e con pianoforte e bayan. Abbiamo quindi ascoltato gli Otto studi (1974, rev. 2009) per contrabbasso solo, Pantomime (1966) con pianoforte, la Sonata (1975) con pianoforte, In croce (1979, rev. 1991) con bayan. Protagonista il virtuoso Daniele Roccato, insieme allo scomparso Stefano Scodanibbio uno degli interpreti votati con successo alla musica d’oggi. Insieme a lui altri due musicisti di valore, il pianista Fabrizio Ottaviucci e Massimiliano Pitocco al bayan. Il concerto ha permesso di approfondire un aspetto della produzione di Gubajdulina di più raro ascolto, con opere che documentano la dimensione cameristica. Abbiamo apprezzato In croce, composizione con inizio e finale speculare affrontato prima dal bayan e poi dal contrabbasso con intenzione quasi giocosa ed una parte centrale di grande poesia. Ma è proprio Daniele Roccato in questa breve conversazione a spiegare ai lettori del Corriere Musicale qualche elemento in più sulle pagine per contrabbasso

La conclusione della nostra permanenza veneziana è avvenuta con l’ascolto di Aspern di Salvatore Sciarrino, programmata nel cartellone del Teatro Malibran e ospitata alla Biennale l’8 ottobre. Noi abbiamo assistito alla rappresentazione del 4. La storia di questo Singspiel in due atti, commissionato dal Maggio Musicale Fiorentino e la cui prima rappresentazione risale al 1978 presso il Teatro della Pergola, è raccontata ai lettori del Corriere Musicale qui sotto dall’ottimo Marco Angius, che ha diretto con precisione ed esattezza gli strumentisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice; per l’occasione la sezione fiati è stata adeguatamente preparata al complesso linguaggio di Sciarrino. Opera piena di simboli, di riferimenti al Mozart delle Nozze, di articolati registri narrativi e personaggi doppi. Fa un certo effetto, a distanza di trentacinque anni dalla prima rappresentazione, ascoltare la freschezza e la bellezza di alcune combinazioni timbriche. Ottimo il soprano Zuzana Marková e il valido cast di attori formato da Camilla Nervi, Annalura Penna, Francesco Gerardi, Gaia Ceresi.

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