
Opera • Con la direzione di Fabio Luisi e la regìa di Stéphane Braunschweig è in scena l’opera di Giuseppe Verdi al Teatro alla Scala
di Luca Chierici
RIPRESA DELLO SPETTACOLO ANDATO IN SCENA il 7 dicembre del 2008 con un successo piuttosto problematico, il Don Carlo è riapparso alla Scala in una produzione simile (ma non esattamente uguale) alla precedente per quanto riguarda la versione dell’opera e alcuni dettagli registici. Per la cronaca il “mosaico”, come Verdi stesso aveva definito il proprio capolavoro, si riferiva qui alla versione milanese del 1884, mentre cinque anni fa Daniele Gatti aveva aggiunto alcune parti tratte dalla versione parigina del 1866, in primis il “Lacrymosa” che segue la morte di Rodrigo e che era stato poi inserito da Verdi nel Requiem. Comunque sia, nessuna rappresentazione del Don Carlo o del Don Carlos pone il termine a infinite questioni riguardanti la compiutezza di questo lavoro che sicuramente è il più difficile in assoluto all’interno della produzione verdiana, tanto che il giudizio finale su una recita come quella dell’altra sera si lascia condizionare anche dall’insieme dei particolari scelti o omessi sulla scorta delle varie edizioni a stampa. Per ciò che riguarda la regia originale di Stéphane Braunschweig, la sua ripresa (a cura dello stesso, visto che non è indicato in locandina il nome di un possibile sostituto) ha omesso alcuni dettagli che risollevavano le sorti di una produzione di valore piuttosto esiguo. Ridottissima era infatti oggi la presenza di quelle controfigure infantili dei personaggi (Don Carlo, Elisabetta, Rodrigo) che nella messa in scena del 2008 costituivano un espediente non certo nuovo ma diretto a sottolineare il rapporto di affetti che legava i tre personaggi (soprattutto quelli maschili) fin dall’infanzia. L’aver tolto l’unico momento magico – il Rodrigo bambino che disarma Don Carlo nel momento della sua plateale rivolta contro il padre – ha diminuito ulteriormente il valore di una regia già non memorabile.
La lettura sperimentale di Daniele Gatti, che aveva contribuito al parziale insuccesso dell’inaugurazione di stagione del 2008, era qui sostituita da una più affettuosa e narrativa concertazione da parte di Fabio Luisi, mancante forse di estro innovativo ma non per questo disprezzabile. Anzi, Luisi ha saputo rendere omogenea una partitura che è costruita davvero a mosaico e che nonostante i motivi ricorrenti lascia sempre l’impressione di una sequenza di pagine bellissime che non trovano un collante se non nella tragica coerenza del soggetto schilleriano.
Luisi non si è limitato ovviamente ad “accompagnare”, senza aver timore di soverchiare talvolta cantanti e coro là dove il denso impasto sinfonico dell’orchestra verdiana lo richiede. Ma allo stesso tempo è stato ammirevolmente a fianco dei protagonisti vocali tramite una lettura in perfetta sintonia di intenti. La compagnia di canto era del resto straordinariamente omogenea, con almeno una punta di eccellenza nel Filippo II di René Pape, forse il solo che si è levato al di sopra della media per una capacità di introspezione che travalica il significato del puro esito vocale. Accanto a lui si segnalava l’eccellente Massimo Cavalletti, dotato di una bella voce brunita e soprattutto di un impeto contagioso che restituiva alla perfezione i contorni di un carattere idealista e leale come quello di Rodrigo. Tenore “italiano” in tutto e per tutto, Fabio Sartori era certamente a proprio agio dal punto di vista vocale nella parte dell’Infante e sembrava fatto apposta per impersonare il carattere un poco goffo e ingenuo del protagonista. A lui va peraltro imputata una linea di canto piuttosto monotòna, con pochissime raffinatezze espressive. Terribile Eboli era la brava Ekaterina Gubanova mentre l’Elisabetta di Martina Serafin lasciava non poco a desiderare per quanto riguarda la qualità della voce nel registro medio-acuto, priva di corpo e tendente allo stridulo, difetto che in parte penalizzava la pur valorosa interpretazione del ruolo da parte della cantante. Stefan Kočan dava risalto come si conviene alla figura dell’odioso Inquisitore e alla sua tessitura che sprofonda nelle regioni più tetre e infine Fernando Rado si segnalava con lode nella parte del Frate, tutt’altro che secondaria. Successo cordiale da parte del pubblico con pochissimi e isolati dissensi indirizzati per il gusto della protesta fine a sé stessa.
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