
Opera • Anche vicino alla conclusione del bicentenario, la Staatsoper riserva ampio spazio al teatro verdiano. Due allestimenti di repertorio mettono a nudo il valore dei singoli interpreti: benché meno blasonati, quelli del Nabucco emergono su quelli dell’Otello
di Francesco Lora
LA NUOVA STAGIONE D’OPERA E BALLETTO della Staatsoper di Vienna prosegue a pieni giri le celebrazioni del bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi: in settembre il sipario si è aperto su quattro recite della Traviata (giorni 3-12), quattro di Otello (14-23), quattro di Nabucco (22-30) e sulla prima di Simon Boccanegra (27). Nel massimo teatro della capitale austriaca, si sa, i nuovi allestimenti sono una minoranza accanto a decine di riprese; e riprese sono state quelle dei quattro spettacoli verdiani, tutti rodati in abbondanza negli anni scorsi. Sarebbe tuttavia un errore riconoscere maggiore importanza ai nuovi allestimenti: precedute da prove minime di scena e musicali, le riprese viennesi mettono infatti a nudo il valore in sé dell’interprete, e spesso agguantano a giorni singoli artisti già assai impegnati, i quali faticherebbero a dare disponibilità più ampie; da ciò escono compagnie di canto talvolta disomogenee, ma a loro modo irripetibili e sorprendenti, nell’entusiasmo o nella delusione, le quali costituiscono ghiotte occasioni di discussione per i melomani. E si discute infatti, qui, del Nabucco e dell’Otello, un Verdi giovane e un Verdi anziano così come li può ascoltare e vedere il pubblico di Vienna.
Se Verdi aveva immaginato uno Jago insospettabile, il baritono russo ne fa un capobranco scopertamente truce e crudele
Nella regìa di Christine Mielitz, e nelle scene e nei costumi di Christian Floeren, l’Otello ostenta gesti forti ma non è poi gran cosa: il palcoscenico è occupato da un ring per la lotta libera, gli uomini sono vestiti da duri (cuoio, muscoli e tatuaggi in vista) e le donne sono vestite da sottomesse (nero indosso e velo in testa). Ciò permette agli attori di attualizzare il movimento scenico, come se fossero sul set di un film sui bassifondi di New York, ma i contenuti rimangono quelli di una regìa tradizionale: con la perdita, però, dell’esotismo cipriota in vista di un generico squallore visivo. Il discorso passa così rapidamente alla musica, e innanzitutto alla direzione di Dan Ettinger: egli vanta ottima comunicazione con l’orchestra e notevoli doti di alchimia timbrica, comprovate dall’impegno e dal virtuosismo degli strumentisti, sia negli schianti a pieno organico (si ascolti la tempesta iniziale, tutta frenetica di lampi e tuoni) sia nei ceselli evocativi (si ascolti la “Canzone del salice”, sfumata a oltranza in ogni frase) sia nello scoprirsi delle singole sezioni o dei loro solisti (si ascoltino gli amorosissimi violoncelli che introducono il primo duetto di Otello e Desdemona, o i contrabbassi che strisciano con lui nella stanza di lei prima della tragedia finale).
Nella bacchetta di Ettinger manca però una vena narrativa chiara e continua, capace di rendere onore all’intera partitura anziché a una selezione di brani salienti, e capace di rendere almeno a questi ultimi non solo il loro valore musicale ed espressivo, ma anche quello teatrale a pieno titolo. L’impresa rasenta del resto il disperato, poiché nella compagnia di canto – proprio come nella regìa della Mielitz – il comune denominatore è calpestato dagli uomini e cercato a fatica dalle donne. L’esempio dato da José Cura come Otello e da Dmitri Hvrostovsky come Jago, infatti, dimostra come gli eccessi dell’attore possano fare piazza pulita del cantante. Tornare a parlare dell’Otello di Cura colpisce in primis chi scrive, convinto che la questione fosse ormai archiviata da un decennio: dotato di indubbio slancio interpretativo ma irrisolto e artefatto nella tecnica di canto, il tenore argentino non esibisce più il muscoloso torso nudo né la fibrosa energia dei suoi trentacinque anni; è invece un cinquantenne dal corpo gonfio e dal canto esausto: il volume è ridotto al lumicino, o esibito in rari e calibrati momenti; l’intonazione, per intere frasi, periclita e infine ricade in un parlato senza musica; il solfeggio stesso si traduce a raffica in una libera articolazione delle parole, ed è intervallato da singulti, spasimi, rantoli di bieco gusto verista; rimane una recitazione, meramente corporea, dove le difficoltà del cantante cercano di farsi tutt’uno con i turbamenti del personaggio. Ma Otello è cosa ben maggiore.
Il caso di Hvorostovsky è contrario nelle intenzioni e coincidente negli esiti. Se Verdi aveva immaginato uno Jago insospettabile, il baritono russo ne fa un capobranco scopertamente truce e crudele: nel nome di una lettura teatrale errata, il timbro ricco di armonici, l’emissione legata e il sorvegliato passaggio di registro – tutte cose nelle quali, quando vuole, Hvorostovsky sa essere maestro – sono così avviliti in un canto tutto di spinta e arroganza, dove i colori si spengono, il registro acuto è forzato e il suono stesso naufraga nel tentativo di proiettarsi oltre il golfo mistico. Come si può intuire, le difficoltà del tenore e gli eccessi del baritono, congiunti nelle scene degli atti III e IV, si fanno complici e attingono esiti di spiacevole volgarità. Né il resto della compagnia di canto maschile può porre menda: Marian Talaba come Cassio, Jinxu Xiahou come Rodrigo, Alexandru Moisiuc come Lodovico e Mihail Dogotari come Montano agiscono infatti da timidi comprimari anziché da sapidi caratteristi, quasi convinti che in un’opera del Verdi maturo possano esservi personaggi inutili.
Ma per fortuna ci sono le donne. Nel doppio duetto dell’atto II, con le due coppie impegnate in dialoghi paralleli, l’Emilia di Monika Bohinec si distingue nell’insieme per ricchezza timbrica e incisività di interventi. E in tutta l’opera Anja Harteros dà vita a una Desdemona tanto ammirevole da far presto dimenticare l’altra sua recente prova verdiana come Elisabetta di Valois nel Don Carlo del Festival di Salisburgo. Là era parsa intimidita e scialba, popolana in panni regali e soprano affaticato da una tessitura piuttosto grave; qui è sembrata ristabilire l’equilibrio in un contesto assai sbilanciato: tecnica solida e asservita all’espressività, timbro fascinosamente scuro, emissione omogenea, voce risonante anche sui gorghi del concertato nell’atto III; e, nel contempo, un personaggio incisivo per quanto ricercato nel pudore. Una cantante che, da sola, fa uscire magnificati dal teatro nonostante le ipoteche del tenore e del baritono sullo spettacolo.
Rispetto alla locandina dell’Otello, quella del Nabucco sventolava nomi meno blasonati, salvo poi annunciare una resa più impegnata e omogenea. Regìa di Günter Krämer, scene di Manfred Voss e Petra Buchholz, costumi di Falk Bauer. Anche in questo caso, l’allestimento è descritto in poche parole: la didascalia è rispettata nonostante la trasposizione dall’antichità al secolo XX, trasposizione suggerita dagli abiti e dal gesto piuttosto che dalle scene, limitate a proiezioni di soggetti simbolici su un fondale spoglio. L’unica libertà, che propone una chiave di lettura dell’opera senza farvi invasione, consiste nell’antefatto mimato durante la sinfonia: si vedono una coppia di bambine impegnate in passi di danza, l’una di modi garbati e l’altra di modi aggressivi, e una coppia di bambini impegnati nei loro giochi, l’uno più meticoloso e l’altro più estroverso; in essi si riconoscono la Fenena, l’Abigaille, lo Zaccaria e l’Ismaele che verranno: il conflitto di rapporti all’interno della “famiglia” suggerisce la restituzione dell’opera alla dimensione privata e borghese piuttosto che a quella corale e risorgimentale.
L’impeto risorgimentale rientra però tutto con la direzione di Paolo Carignani, che alla testa dei Wiener riscuote fuoco e metallo in abbondanza, e che nel contempo sa modellare i necessari ripiegamenti lirici: un bell’incontro tra un monumento di tecnica germanica e un esperto di opera italiana. Il Coro della Staatsoper, a sua volta, fa miglior figura qui che nell’Otello, mostrando nuova dedizione, risonanza, ispirazione, fino a un «Va’, pensiero, sull’ali dorate» plastico e sospeso, da antologia anche se intonato al di là delle Alpi.
Nella compagnia di canto, il più sorprendente è Željko Lučić come protagonista: la voce non è ricca di smalto, ma la rifinitezza stilistica del fraseggio musicale e la varietà d’accenti nel porgere teatrale rasentano lo sbalorditivo; al suo intonare «Dio di Giuda!… L’ara, il tempio» avviene non a caso uno di quei momenti incantati dove l’ascolto pende, silenziosissimo e ipnotizzato, dalle labbra dell’interprete carismatico. Anche Jennifer Wilson, già sciapa Brünnhilde e Turandot di Zubin Mehta al Maggio Musicale Fiorentino, approccia sì la parte di Abigaille con piglio wagneriano e agilità laboriose, ma esibisce qui un’energia e un carattere superiori a ogni aspettativa. Come Zaccaria, Vitalij Kowalijow vale sia nel legato e nell’affondo del cantabile, sia nell’impeto e nell’acuto della cabaletta, e gradite sorprese sono due giovani cantanti ancora poco noti in Italia: il tenore Dimitrios Flemotomos vanta il timbro e il temperamento del vero tenore verdiano, e merita sin d’ora il passaggio da Ismaele a Ernani, mentre il mezzosoprano Alisa Kolosova, intonando la romanza di Fenena, dischiude davvero il firmamento con una pasta vocale che è insieme sontuosa, affettuosa e solenne; i direttori artistici italiani, se ve ne sono di avveduti, prendano subito nota.
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