
Opera • Il titolo di Strauss, che inaugurò il restaurato teatro cinquant’anni fa, è la prima nuova produzione dell’anno al Nationaltheater. Kirill Petrenko dirige senza retorica, fedele allo spirito del compositore; manchevole la regìa di Warlikowski che penalizza anche il cast imponendo ritmi letargici all’azione
di Riccardo Rocca
NON SOLO LA DONNA SENZ’OMBRA è quel titolo che inaugurò cinquant’anni fa il ricostruito Nationaltheater in una mitica edizione diretta da Joseph Keilberth con Ingrid Bjoner, Jess Thomas, Inge Borkh, Dietrich Fischer-Dieskau e Martha Mödl; essa è anche un capolavoro che con impressionante lucidità tocca alcune tematiche vicine al nostro tempo. Strauss ed Hofmannsthal ci parlano di fertilità di coppia, di bambini, di contrapposizione tra mondo celeste e terreno, tra bene e male, il tutto all’interno di un’originale cornice a metà tra il fiabesco e il dramma psicanalitico. Il teatro straussiano, più di quello di Wagner, brilla oggi in tutta la sua modernità, forse proprio perché nato in un’epoca di crisi e di trapasso non troppo distante da quella odierna. Recuperare questo filo di rimandi tra le epoche, far riemergere in tutta la sua pienezza la filigrana di un capolavoro, dovrebbero essere i compiti di un regista chiamato ad allestire un’opera in un contesto così prestigioso.
Il regista Krzysztof Warlikowski sembra non occuparsi affatto di questo, né – come purtroppo usano fare molti registi d’opera – pare interrogarsi sul senso di una musica che non è accessoria al testo teatrale, ma è, al contrario, quel fondamentale strumento utile a schizzare “il colore psicologico d’ogni momento espressivo”, per dirla con Montale. Lo spettatore si trova dunque catapultato, con Warlikowski, in uno spettacolo la cui regìa segue una propria logica, ma non tiene conto né dei fondamentali della drammaturgia musicale, né del fatto che Strauss, anche nella più complessa e profonda delle sue opere, era troppo uomo di teatro per perdere tempo con intellettualismi sterili o cervellotiche sofisticazioni. Anteporre alla musica dell’opera, come fa Warlikowski, un prologo – lungo 5 minuti – con la proiezione del film L’année dernière à Marienbad (1961) di Alain Resnais è certo un’idea possibile – così come possibili sono infinite altre divertenti interpolazioni, aggiunte o giustapposizioni – ma che altera gli equilibri musicali previsti dagli autori principali (Strauss e Hofmannsthal). Se poi, con l’andare dello spettacolo, ci rendiamo conto che a tanta “inventiva” iniziale corrisponde un passo drammaturgico sostanzialmente letargico, poiché miseramente didascalico – quando non tremendamente statico come nella scena tra Barak e la moglie – allora sale veramente la sensazione che tanta sofisticazione serva a compensare una sostanziale carenza di idee e di intuizioni sull’opera.

Il cast risente naturalmente delle lacune registiche, ma non impedisce di apprezzare la sempre bravissima e radiosa Adrianne Pieczonka come Imperatrice, la valente Deborah Polaski passata dal ruolo della Tintora al quello della Nutrice – oggi più confacente alla sue possibilità – ed un Johan Botha (Imperatore) vocalmente saldo ma limitato in tutto il resto. Wolfgang Koch è un Barak corretto ma un poco anonimo ed Elena Pankratova una Färberin che della micidiale parte possiede tutte le note ma non esattamente il giusto accento. A chi compone i cast non dovrebbe sfuggire il fatto che i ruoli dell’Imperatrice e della Tintora vennero pensati da Strauss nientemeno che per il carisma e le diverse vocalità di Maria Jeritza e Lotte Lehmann, e che dunque solo attraverso una convincente ed attuale rivisitazione di tale dualismo può passare un’efficace riuscita del capolavoro straussiano.
Fortunatamente quel che non accade sulla scena avviene in buca: Kirill Petrenko governa l’orchestra con passo narrativo incalzante, per una concertazione fitta di dettagli, mai roboante, mai enfatica ma sempre netta e compatta; il commento orchestrale tiene insieme e tenta di sopperire alle manchevolezze della scena con un continuo pullulare di timbri e colori; di volta in volta Petrenko richiama in evidenza le diverse sezioni con una precisione ed un sorridente candore che sono propri di chi fa musica nel più autentico e genuino dei modi. Ancor più interessante è l’interpretazione di Petrenko alla luce di un certo fraintendimento dell’estetica di Karajan che troppo spesso trascina il repertorio straussiano in una voragine di estetismo fine a se stesso, nel quale i pochi secondi di impennate edonistiche a tutta orchestra vorrebbero sostituire la ricchezza del tessuto connettivo di quasi quattro ore di musica: Petrenko rifugge da tutto ciò ed imbocca un’altra strada, più fedele alla poetica straussiana, non solo nel ripristino dell’organico originale e nella riapertura dei tagli di tradizione, ma anche nello stile, mediante tempi complessivamente spediti ed una concertazione priva di ogni retorica. Il morbido e suadente intervento solistico del Konzertmeister Markus Wolf, nel terzo atto, basta a riassumere le virtù del Bayerisches Staatsorchester, i cui musicisti rispondono con complicità e rapimento all’entusiasmo del loro nuovo direttore musicale, lasciando presagire e pregustare anni di novità e successi.
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