
Al Comunale ritorna lo spettacolo già firmato da Fassini e Orlandi, con una compagnia di canto deficitaria su più fronti; una lettura d’eccezione viene tuttavia dal giovane direttore Jader Bignamini
di Francesco Lora
LA STAGIONE 1999-2000 del Teatro Comunale di Bologna si aprì con una Tosca di Puccini. Letta allora, la locandina prometteva routine; letta oggi, fa venire i lucciconi agli occhi: Daniele Gatti, Daniela Dessì, Vincenzo La Scola e Ruggero Raimondi. Non fu invece gran cosa, in assoluto, l’allestimento scenico con regìa di Alberto Fassini e scene e costumi di William Orlandi: l’anno precedente, d’altra parte, era andato in scena un memorabile Dom Sébastien di Donizetti, con favolose immagini teatrali di Pier Luigi Pizzi. Lasciata al rimpianto la parte musicale di quella vecchia Tosca, scene e costumi sono invece usciti dai magazzini per dieci nuove recite, dallo scorso 20 febbraio al 2 marzo prossimo. Si ritrova così la grigia scalinata sul fondo, sopra la quale s’inclinano grigiastre pale d’altare negli atti I e II, e davanti alla quale incombe, nell’atto III, un cartone con l’angelo di bronzo di Castel S. Angelo. Poco colore è portato dall’abito blu della protagonista e dalle tunichette rosse dei pueri cantores. Si ricordava un’immagine e non la si ritrova: l’accumulo di crocifissi sul tavolo di Scarpia, espressione di cupido bigottismo, ora assai ridotto nel numero e nell’effetto. Più in generale, la nuova regìa di Gianni Marras vorrebbe togliere la polvere a quella di Fassini, ma né riesce a ripristinarne la confortevole atmosfera tradizionale, né riesce a procurare sciolta recitazione a cantanti troppo in affanno con la musica.
Nella prima compagnia, tra le ben tre in cartellone, scendono a mal partito soprattutto le prime parti maschili. Al personaggio di Mario Cavaradossi, Stefano Secco procura non più che le note: sbiancate, flebili e faticose, tuttavia, mentre l’attore sembra rinunciare a ogni volontà espressiva. Caricaturale risulta invece il Barone Scarpia di Raymond Aceto, con quel portamento molleggiato e operettistico, adatto più al sergente Belcore che non a un poliziotto nobile, calcolatore e abbastanza dotto da saper citare, agli albori dell’Ottocento, l’Otello di Shakespeare; ma è inutile cercare le finezze: in un canto scolorito e incerto, le sillabe sono esse stesse articolate una per una, separatamente, così da spezzare il flusso della parola e della frase melodica, e da dimostrare un’insufficiente comprensione del testo verbale e musicale. Rilievo più felice ha invece la Floria Tosca di Ainhoa Arteta, soprano cui non difettano lo smalto, il volume e la grinta, anche a costo di una certa esagitazione verista oggidì obsoleta (il compiaciuto affondo nel registro di petto, la frequente defezione dal cantato al parlato, il risparmio vocale in vista di un acuto ben piazzato). Nelle parti di contorno, si distinguono positivamente lo Spoletta di Cristiano Olivieri, stilizzato e puntiglioso, lo Sciarrone di Luca Gallo, granitico in superficie ma capace di sfumature accorate, e il Pastore di Valentina Puccini, tanto educata nel canto quanto spontanea nell’espressione.
Eccellente è infine la concertazione di Jader Bignamini, corso quasi all’ultimo momento per sostituire un collega, e venuto a confermarsi – insieme con Michele Mariotti – come il più interessante e maturo giovane direttore italiano. Il dominio tecnico, affinato in anni di assistenza a Riccardo Chailly, gli fa estrarre dall’Orchestra e dal Coro del Teatro Comunale colori insospettati, controcanti dimenticati, echeggi di corno tanto orgogliosi e perfetti da illudere l’ascoltatore d’essere non a Bologna, ma a Dresda o a Vienna. Pur al cospetto di una compagnia deficitaria su più fronti, non manca mai il suo sostegno amorevole al cantante, puntualmente raccolto anche laddove il solfeggio ceda alla fantasia. E il narratore è superbo, sia nella mollezza data al canto di conversazione, sia nell’incandescenza versata sotto gli scontri a nervi tesi, sia nella tagliente monumentalità impressa al Te Deum. Studiata a fondo l’opera che tutti credono di aver già nella bacchetta, in nome della tradizione pigra, ecco venir fuori una Tosca differente e migliore.
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