Alfredo Bernardini dirige la Water Music e la Music for the Royal Fireworks in una rara esecuzione italiana, caratterizzata da entusiasmo, genuinità e schiettezza
di Francesco Lora
PARTITURE ARCINOTE e discografia importante; ma le tre suites della Water Music (1717) e l’unica della Music for the Royal Fireworks (1749), capolavori strumentali di Georg Friedrich Händel, sono raramente eseguite dal vivo e meno che mai in Italia. L’eccezione è data dall’Ensemble Zefiro e dal suo direttore Alfredo Bernardini: nelle loro incisioni e nei loro concerti queste musiche sono un caposaldo di repertorio, replicato a oltranza quasi per controbilanciare la poca attenzione di altri esecutori e istituzioni di spettacolo. E non è un caso che la stagione sinfonica dei Teatri di Reggio Emilia, sempre varia nelle proposte e acuta nelle ospitalità, abbia accolto un’esecuzione delle quattro suites, il 19 febbraio nel Teatro Valli, per una serata tutta händeliana officiata appunto dallo Zefiro e da Bernardini.
Il loro non è uno Händel museale ed estetizzato alla britannica o alla francese, come lo conosciamo da tante fortunate incisioni d’Oltralpe o d’Oltremanica: niente mattutini bagliori d’archi o corruschi gesti d’ottoni, niente lamenti o velluti d’oboi, niente ideale dischiusa del locus amœnus al canto pastorale d’un traversiere. Nello Zefiro spira piuttosto la concretezza della materia: si sentono il legno, il metallo, la minugia, la membrana dell’uno o dell’altro strumento, in un insieme timbrico spesso torbido e con un piglio altrettanto strepitoso; vincono l’entusiasmo, la genuinità e la schiettezza, quasi a voler ricordare il contesto fisico nel quale quelle musiche supreme risuonarono per la prima volta: spazi aperti, su una chiatta o in un pubblico parco, tra il placido scorrere del Tamigi o come sottofondo agli scoppi dei fuochi d’artificio.
Scende così tra l’uditorio più il senso della festa che quello della meraviglia. Quest’ultima è soprattutto visiva: per esempio quando un gran mormorio di pubblico saluta l’ingresso sul palcoscenico di Maurizio Barigione, accompagnato da due metri abbondanti di controfagotto; o quando accanto al primo oboe, suonato da Bernardini stesso, si osservano gli omozigoti fratelli Grazzi, Paolo e Alberto, oboista e fagottista, identici fino a confondere occhio e pensiero. Ma si distinguono anche la lussuosa presenza di Gabriele Cassone tra le trombe, e il vivacissimo dialogo tra i violini soli di Nicholas Robinson e Ayako Matsunaga in un ulteriore brano händeliano in programma: il Concerto grosso in Do maggiore che, una volta, piacerebbe anche ascoltare all’interno della più vasta composizione per la quale fu concepito, l’ode-oratorio Alexander’s Feast (1736). Ma chi ha fretta, in Italia, per Händel?
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