
L’opera di Ermanno Wolf-Ferrari in scena al Teatro Sociale in collaborazione con la Fenice di Venezia. La regia è di Paolo Trevisi
di Elena Filini
VINTAGE SI. Artigianale pure e, insieme, di tradizione. Ma vivace, cangiante, tutta giocata sul dire, la favola goldoniana del Campiello racconta Venezia nella tinta di un allegro cicaleccio che si fa malinconia, di un ricordo che trascolora come una tela di Canaletto. Così, con un’operazione che mescola gli scenari d’opera al mondo più popolare della prosa, va in scena in tempo di Carnevale il Campiello di Ermanno Wolf-Ferrari per la consolidata regia di Paolo Trevisi in una combine sapiente di vecchie glorie del palcoscenico, dal comprimariato di lusso all’operetta e giovani interpreti. L’operazione, voluta dal direttore artistico del Sociale, Stefano Romani, che nell’occasione è anche direttore alla testa dell’orchestra Filarmonia Veneta, è messa a segno con la collaborazione della Fenice di Venezia, che circuiterà il lavoro in laguna al Teatro Malibran.
Il trevigiano Paolo Trevisi è un vocabolario vivente dell’opera goldoniana, che ha approfondito prima come assistente di Cesco Baseggio, poi come attore ed infine dietro l’invisibile macchina da presa del sipario. Nell’opera di Ermanno Wolf- Ferrari, che in pieno Novecento trasforma il teatro goldoniano in partitura operistica, è un’autorità riconosciuta: la sua conoscenza approfondita di ogni ruolo e di ogni inflessione del testo sono più che evidenti. La sua regia, che mutua scene e costumi dalla première veneziana del 1946, prende a prestito molti stilemi tipici del teatro di prosa, e risulta vivace, concitata, popolaresca e fresca senza scadere mai nel grossolano,con una particolare simpatia per il mondo dei vecchi e dei creduloni.
Il cast costruito per questa produzione vede protagonista l’indovinata Gasparina di Roberta Canzian che insieme ad un giusto phisyque du rôle e ad una confidenza con la lingua, mette a segno una prova vocale freschissima, inappuntabile, riuscendo alla fine a centrare perfettamente il ritratto della veneziana un po’ snob, finta saputa ma adorabile. Maurizio Leoni quale Cavalier Ridolfo mette in luce un perfetto dominio del mezzo e disegna un’ottima prova musicale, piuttosto convincente anche sul fronte scenico. Paola Cigna è tecnicamente ineccepibile e presta il suo mezzo di bel colore al ruolo di Gnese: a volte sembra forse solo soffrire un po’ il peso dell’orchestra. Il volume ed un timbro ambrato non fatto invece difetto a Diana Mian che ha bella voce, garbo scenico e buona preparazione musicale forse con qualche dettaglio da risolvere in zona acuta. Simpatica e spigliata la prova di Cristina Sogmaister nel ruolo di Orsola la Fritolera, a tratti poco presente nei centri. I due bellimbusti Anzoleto e Zorzeto, rissoso l’uno, melenso l’altro, sono interpretati da Giacomo Patti e Italo Proferisce. Del primo colpisce il timbro brunito, la potenza dell’ emissione, il secondo avrebbe delle buone credenziali vocali ma tuttavia entrambi risultano più acerbi e meno spigliati delle loro partner. Sugli scudi invece l’esilarante prova di Max Renè Cosotti e Nicola Pamio, che mettono la propria autoironia e la lunghissima esperienza teatrale a servizio dei ruoli (potremmo dire En travesti?) di Dona Cate Panciana e Dona Pasqua Polesana realizzanto un dittico teatrale di rara simpatia. La partitura di Wolf-Ferrari per questo vezzo di colloquialità, è insieme popolare e colta: una sintesi che sotto il profilo musicale risulta tutt’altro che semplice da realizzare. La bacchetta di Stefano Romani affronta il lavoro con giusta scorrevolezza, che mai turba il gioco sul palcoscenico e anzi sempre lo asseconda. Questa non è una Venezia da cartolina, ma da maquette. Ha un sapore un po’ desueto ma un fascino gentile, una grazia che innamora.
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