Dopo l’indimenticato allestimento del 1991, il capolavoro di Čajkovskij è di nuovo al Teatro Comunale. Ordinaria la regìa di Trelinski, cui vanno ricondotti tagli gravi alla partitura. Aspetti d’interesse nella direzione di Shokhakimov e nella compagnia di canto
di Francesco Lora
A BOLOGNA L’EVGENIJ ONEGIN di Pëtr Il’ič Čajkovskij è ancor oggi soprattutto, per chi c’era o avrebbe voluto esserci, un ricordo dell’allestimento del 1991 al Teatro Comunale: spettacolo mozzafiato con la direzione di Vladimir Delman, la regìa di Robert Sturua e le voci di Mirella Freni, Paolo Coni, Giuseppe Sabbatini e Nicolai Ghiaurov. Si va su Youtube e se ne cercano le reliquie. Finché il tempo non ha fatto insulto a quell’ideale compagnia di canto, il capolavoro di Čajkovskij era divenuto un fatto molto più italiano – e interpretativamente molto più minuzioso, innovativo, insospettato – di quanto non si potesse credere. Per otto recite dal 1° al 9 aprile, l’Onegin è ora tornato al Comunale; e, senza rancore, si è tornati tutti sulla terra.
L’allestimento, proveniente da Varsavia e già visto a Valencia, ha regìa di Mariusz Trelinski, scene di Boris Foltýn Kudliča, costumi di Joanna Klimas, luci di Felice Ross e coreografie di Emil Wesołowski. A dispetto dell’esotismo nei segni diacritici necessari a elencare gli artefici, si tratta di uno spettacolo più ordinario di quanto ambirebbe a essere. Per il palcoscenico si aggira un vecchio personaggio bianco, un po’ Onegin anziano, un po’ controfigura di Lenskij, un po’ narratore e un po’ spettatore. Intorno a lui, scene buie ridotte al minimo, costumi ottocenteschi contaminati con qualche innocua trasgressione da terzo millennio, feste dell’alta borghesia sanpietroburghese dove si fa mercato del corpo femminile. E il protagonista diviene un cattivo senza mezze misure, il quale addenta la mela da porgere a Tat’jana, danza con lei finché è bendata, fugge tra le braccia di Ol’ga appena ella può vedere, uccide infine Lenskij con un colpo a tradimento.
Come tanti, Trelinski è uno di quelli che non crede più alla sincera gaiezza di una festa o a un moto dell’animo umano non inscritto in una psicopatologia. Non gli garbano, poi, alcune parti dell’opera; e giù tagli: sparisce la scozzese danzata dell’atto III, e spariscono soprattutto – fatto di gravità inaudita – i canti e le danze dei contadini nell’atto I e il ringraziamento loro rivolto dalla possidente Larina. Spariscono così, in questo secondo caso, brani che danno compiutezza formale all’introduzione di qualsivoglia opera ottocentesca; che illustrano la concordia sociale tra il mondo rurale-popolare e quello altoborghese-forbito; che procurano la sferzata ritmica a un atto teatrale altrimenti tutto intimo e sommesso; che Ol’ga cita subito tra sé e sé divertita, e che se tagliati fanno perdere il senso della citazione. Ma i registi oggi hanno molte cose da insegnare a chi si occupa di musica.
Ha aspetti d’interesse la concertazione del giovane direttore uzbeko Aziz Shokhakimov, assai presente a Bologna negli ultimi mesi e con profitto dubbio, ma qui a una prova più compiuta, matura e adatta a tirare un primo giudizio. Sotto la sua bacchetta, l’Onegin risponde con molti degli ingredienti indispensabili: l’atmosfera della Russia campagnola e altoborghese, l’arte del rubato e l’estenuazione della melodia, l’impasto del suono timbricamente bello. Latita ancora l’abilità narrativa, soprattutto in vista di un canto di conversazione vivace; latita la cura dell’intonazione in cantanti, coro e orchestra; e latita la pienezza sonora nello slancio sinfonico degli interludi e nei grandi pezzi d’assieme: a quest’ultimo proposito, si nota con preoccupazione la fiacchezza del Coro del Teatro Comunale dopo il trasferimento a Firenze del suo maestro emerito Lorenzo Fratini.
Nella compagnia di canto si apprezza in particolare il Lenskij di Sergej Skorokhodov, inedito poiché non lirico e sognatore, ma eroico e squillante come il ferreo principio che incarna. La Tat’jana di Amanda Echalaz fa valere a sua volta un’emissione solida e un colore scuro, salvo poi affaticarsi nel registro acuto ed evocare solo da lontano, nei primi due atti, la trepidante giovinezza del personaggio. Sottile nel gioco scenico, cinico e giovanile risulta invece l’Evgenij di Artur Rucinski, mentre l’Ol’ga di Lena Belkina fatica nelle discese agli abissi contraltili ma non manca di brio adolescenziale. Imbarazzanti sbandamenti di fraseggio e intonazione nel Principe Gremin di Alexei Tanovitski; notevolissimi, per contro, gli esiti di alcune parti da caratterista: si ammirano la Filipp’evna amorevole e sfumata di Cristina Melis, il Triquet sofisticato e irresistibile di Thomas Morris, lo Zareckij insieme granitico e paterno di Luca Gallo.
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