Al Teatro Regio in scena l’opera di Rossini per la regia di Graham Vick: sicuramente forte, cattura ma non necessariamente conquista. Ottima la direzione di Gianandrea Noseda, bene anche il cast
di Attilio Piovano
TERZULTIMO TITOLO DI STAGIONE per il Regio di Torino il rossiniano Guglielmo Tell in scena da mercoledì 7 maggio (e sino a domenica 18 per cinque sole recite). Allestimento in coproduzione con il Rossini Opera Festival, e si tratta dell’edizione proposta a Pesaro la scorsa estate, con successo e nel contempo talune polemiche (sul versante scenico, ovviamente): regia – fin troppo dirompente e provocatoriamente antitradizionale – di Graham Vick (ripresa da Lorenzo Nencini), scene e costumi di Paul Brown e coerenti luci di Giuseppe Di Lorio. Un’edizione dunque assai inconsueta che a Torino, a onor del vero, ha riscosso unanimi e protratti consensi, merito certo di un valido cast e della direzione di Gianandrea Noseda; sicché (la sera della prima) pare aver convinto appieno il pubblico anche per quanto attiene all’idea di fondo, la tesi di tale produzione: Guglielmo Tell quale opera politica e rivoluzionaria, che mette in piedi la rivolta dei sudditi visti come (più moderni) proletari (con una preponderanza di rosso e bianco, pur sempre i colori della Svizzera). Per carità, legittima e plausibile chiave di lettura. Ed allora ecco, in un impianto di parallelepipedi ossessivamente e asetticamente bianchi, quella grande scritta Ex terra omnia (Tutto viene dalla terra) e la terra che si materializza – ci è stato spiegato – come un che di artificiale, fin dall’inizio. Terra che campeggia sul pavimento (lindo) e viene ossessivamente ripulita, ne vengono cancellate le tracce, come si trattasse di qualcosa di estraneo in un mondo di pareti bianche, un mondo artificiale in cui anche la natura diviene tale.
In una visione manichea di buoni e cattivi, ecco gli svizzeri (vittime oppresse) e i loro oppressori/dominatori (gli austriaci) che se ne burlano ferocemente (e financo la scena della mela assume contorni di perfida sfida) entro uno spettacolo dove l’idea del meta teatro è palpabile fin dall’inizio, concepito come un set televisivo con proiettori a vista, immagini oleografiche di una improbabile Svizzera da cartolina, telecamere e cinecamere che riprendono «come se fosse un documentario quegli esseri strani che vogliono rimanere attaccati alla terra». Ed anche le danze sono interpretate in chiave grottesca, con costumi vistosamente caricati e folklorici, movimenti marionettistici (bravissimi i danzatori e davvero eccellenti le coreografie di Ron Howell riprese da Ilaria Landi). Ancora la terra protagonista nel filmato in bianco e nero proiettato a vista (stile superotto amatoriale anni ’60/’70) e che ci mostra l’eroe Arnold bambino, intento a ricevere dal padre (ora ucciso) un pugno di terra (simbolicamente, certo ma il fatto è che pare piantino zucchine nell’orto in Romagna, con risultato discutibile). Ancora: quei tredici cavalli (diconsi tredici) a grandezza naturale, vistosamente finti, in apertura del second’atto che poi verranno rimossi dai macchinisti, di nuovo, come sul set di uno spot, e nella scena della congiura ammassati a formare barricate sovrastate da bandiere rosse.
E poi un cavallo bianco decapitato e sbudellato, ma la barca è realistica, la scena della tempesta sul lago è risolta con gusto ed efficacia (alcune trouvailles come un piccolo rogo domestico sul tavolo sparecchiato e via elencando) a fronte di altre cose assai più lambiccate, in tutta franchezza talora eccessivamente intellettualoidi. Sicché si stenta un po’ ad entrare nel meccanismo, qualcuno, come chi scrive, ci è riuscito solamente a partire dal terz’atto, ma poi si viene catturati, anche se non necessariamente sedotti. Altri elementi, però, appaiono più incomprensibili (l’incastellatura dei proiettori che si abbassano fino a terra prima di accendersi: per suggerire il “chiuso” della congiura? Forse, ma si stenta a capirlo). Qualcosa poi distrae davvero troppo: la lunga performance di chi scrive sui muri con la vernice rossa a caratteri cubitali HELVETIARUM FIDEI AC VIRTUTI (perché mai tutto in latino?) e si perdono parecchi minuti di recitativo. Pare ci siano anche talune citazioni cinematografiche (da Novecento di Bertolucci) così come il fermo immagine dei cavalli/barricata allusivo forse a certo Pelizza da Volpedo, e poi il sadismo (eccessivo e anche un po’ urtante, ma è un’idea forte e valida) della scena delle umiliazioni e dei soprusi (sessuali) cui vengono sottoposti gli svizzeri dagli oppressori, e le danze che non sono confinate a semplice accessorio, ma divengono parte integrante dell’azione.
Insomma una regia forte (talora fin impattante come dicono gli architetti) e rischia di porre in ombra il versante squisitamente musicale che ha registrato validi esiti.
Noseda, per dire, ha fatto davvero del suo meglio per porre in luce gli aspetti romantici di quest’opera (la Natura, fin dalla celeberrima Ouverture eseguita con insolito appeal) cesellando con cura estrema anche i protratti recitativi accompagnati, assecondando le pieghe di una strumentazione innovativa e policroma con eccellenti risultati grazie ad un’orchestra in buona forma (qualche eccesso dinamico e piccole sbavature negli ottoni fuori scena). Ma per notare tutto ciò occorreva, a nostra volta, distrarci un poco dalla (talora) distraente regia. Di rilievo la prova fornita dal coro (istruito da Claudio Fenoglio), coro che a partire dall’iniziale e pacato «È il ciel seren» e dal seguente «Rimbomba il monte» tanta parte ha in quest’opera: già nel primo atto (laddove il secondo è più lirico e intimista), giù giù sino alle emersioni di «Giuriam giuriamo» e del conclusivo, catartico «Tutto cangia, il ciel si abbella».
Ed ora le voci: dopo l’urlo fuori ordinanza cacciato in apertura dal tenore Mikeldi Atxalandabaso, il pescatore Ruodi in «Il picciol legno ascendi» (cantante che diversamente non avremmo nominato), dopo il girotondo a cerchi concentrici (scenicamente efficace) e il coro che celebra le gioie di Imene, ecco il generoso Guglielmo Tell del baritono Dalibor Jenis che ha convinto anche sul piano scenico (immancabili e meritati applausi a scena aperta in «Resta immobile»). Bene il tenore John Osborne (Arnoldo, apprezzato poi in «O muto asil del pianto») ed assai applaudita Angela Meade nel ruolo di Matilda: sfoggia eleganza e belle emissioni in apertura dell’atto secondo in «Selva opaca», salutata da applausi a scena aperta (qualche cambio di registro non del tutto omogeneo). Un plauso speciale per il basso Fabrizio Beggi (Melchtal, padre di Arnoldo) e così pure per il soprano Marina Bucciarelli nei panni del figlioletto dell’eroe che a fine spettacolo ascende una scala dai rossi gradini, platealmente kitsch. Ancora da citare il basso Mirco Palazzi (il congiurato Gualtiero Farst) e il basso Luca Tittoto (il governatore Gessler dalla buona presenza scenica) così pure il mezzosoprano Anna Maria Chiuri (Edwige, moglie di Guglielmo Tell). Tutti allineati su un buon livello i comprimari.
Un’ultima annotazione: tutte le volte che si ascolta Guglielmo Tell vien da ripensare alla rara bruttezza dei versi della versione italiana (la traduzione ritmica di Calisto Bassi che fu drammaturgo della Scala e che scimmiotta logori topoi librettistici: ripristinata da Paolo Cattelan). Tanto varrebbe vietarne l’adozione ed imporre l’assai più eufonica e gradevole versione originale francese di Étienne de Jouy e Hippolyte Bis.
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