Contrario a sforbiciare la partitura, il direttore De Billy abbandona la nuova produzione dell’Opera di Stato. Il sostituto Franck manda in porto uno spettacolo firmato dal regista Homoki e con una buona compagnia di canto
di Francesco Lora
PROLOGO INEDITO E FUMOSO al Lohengrin di Wagner, nuovo allestimento in scena all’Opera di Stato di Vienna dal 12 aprile scorso: all’avvento della “prima” il direttore designato, Bertrand De Billy, ha alzato i tacchi e ha lasciato la produzione. Motivo: senza preventivamente consultarlo, il tenore protagonista aveva concordato con regista e sovrintendente uno sfrondamento della sua lunga parte. E a De Billy non è andata giù. A Vienna egli è una delle bacchette di riferimento: ha contribuito come nessun altro non solo alla riproposta di titoli rari, ma anche all’educare colleghi e pubblico al piacere di esecuzioni integrali, non guastate dai tagli tradizionali che solo l’insufficienza o la pigrizia dell’esecutore e dell’ascoltatore possono giustificare.
Sue sono state le molte recite, dal 2004 al 2013, del rarissimo Don Carlos originale di Parigi 1867, da molti tanto evocato quanto pasticciato con le altre versioni; e sue sono state, nel 2011-2012, le recite della Traviata con miracolosamente al loro posto tutte le seconde strofe dei cantabili, le cabalette e le loro riprese. Sono due esempi tra i numerosi possibili; e una tale forza di principio è cosa non da poco, se si pensa che all’Opera di Stato di Vienna le forbici lavorano alacremente, e che un intero Elisir d’amore è lì sbrigato in due ore e un quarto, intervallo compreso. È tollerabile che la capitale austriaca, una roccaforte del teatro wagneriano, mandi ancora in scena un Lohengrin monco? Con risposte antitetiche, ha vinto De Billy col proprio passo indietro, e ha vinto il teatro andando avanti per la propria strada.
La direzione è passata a Mikko Franck, trentacinquenne finlandese che lega perlopiù alla propria nazione il suo ruolo e le scelte di repertorio, e che alla fine di marzo aveva appena debuttato all’Opera di Stato con La bohème. Promosso sul campo a un titolo wagneriano e a un nuovo allestimento, non deve essergli parso vero di poter sfogare a pieni giri il motore delle prime parti dell’orchestra, leggi i Wiener Philharmoniker. Così, in questo suo Lohengrin tutto ciò che è muscolare splende d’oro, e la melodia è cantata col garbo, la maniera e la forza di tradizione non distillati dalla sua bacchetta, bensì depositati dalla storia in quelle sante file di strumenti (oltre che in un Coro anch’esso in forma superba). Tolta l’esibizione virtuosistica, però, alla memoria non restano altri meriti, e si torna sotto il segno del rimpiazzo di lusso. Molti applausi, in ogni caso, e va bene così.
Dall’altro capo, non è invece piaciuto granché l’allestimento con regìa di Andreas Homoki e scene e costumi di Wolfgang Gussmann; ciò, nonostante la nuova produzione venisse a spazzar via quella firmata da Barrie Kosky, Klaus Grünberg e Alfred Mayerhofer, ininterrottamente contestata e ripresa e ancora contestata dal 2005 al 2010. Nello spettacolo di Homoki, per la verità, nulla offende la tradizione. Rispetto all’originale, v’è solo un’innocua trasposizione di tempo e luogo, dalla quale ne deriva una, più importante, di relazione sociale. Si passa dal Brabante medievale, feudale e cavalleresco, all’Austria Ottocentesca, campagnola e in abiti tradizionali; e si passa, soprattutto, da una collocazione aristocratica e astratta, di corte e di Stato, a una collocazione democratica e concreta, dove i rapporti sono quelli tra paesani di pari grado sociale e di variabile litigiosità. Tutto qui.
Di buon livello la compagnia di canto, per quanto in essa si palesi la crisi della scuola vocale wagneriana, sempre più tenuta in ostaggio dall’imperizia di sintesi tra la parola e il canto, tra il realismo espressivo e la formalizzazione musicale, tra i diversi stati d’animo che in un’opera romantica dovrebbero dar luogo a una ricca scala di colori, rimessa all’abilità dell’interprete, e non a una netta ripartizione tra il buono e il cattivo, il bianco e il nero. Fuor di metafora: sta bene che Camilla Nylund dia luogo a un’Elsa immacolata, liricissima, e capace tuttavia di ambizione, disperazione e ribellione nel voler estorcere allo sposo il famoso segreto sulla sua identità; ma non sta affatto bene che Wolfgang Koch dia luogo a un Friedrich von Telramund tutto ugualmente rozzo, gridato, chiassoso, dimentico della propria nobiltà di nascita e dei suoi calcoli strategici.
Sulla linea di Koch si collocano loro malgrado le altre voci gravi maschili: Günther Groissböck vanta infatti caratura notevole, tipica però di un profilo protervo e vilain, e dunque lontana dalla maestà giusta e buona del re Heinrich; mentre Detlef Roth, come Araldo del Re, conferma ahilui la monotonia del fraseggio e l’appannamento della voce, già fibrosa e ora sfibrata. Eccellente è invece la Ortrud di Michaela Martens, il cui canto forte e caldo si accompagna ad accenti in inesausta oscillazione tra il tagliente, l’untuoso, l’insidioso, l’irrisorio. Piace infine, con modesta riserva, il tenore che ha irritato De Billy: Klaus Florian Vogt non è certo uno Heldentenor con emissione d’acciaio, bensì un tenore di grazia curiosamente consacratosi a Wagner, con un’emissione tanto leggera da giocare tutto intorno al falsetto e all’androgino; bontà sua, tuttavia canta anziché urlare, e lo fa con gusto sopraffino, varietà di fraseggio, proiezione tale da riempire con una mezzavoce tutta la sala. Davvero non ce l’avrebbe fatta a cantare qualche frase in più?
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