
Al Teatro Comunale un’inerte regìa di Abbado figlio sostituisce quella, referenziata, di Martone, e trascina all’illanguidimento la direzione di Mariotti. Non ben assortita la compagnia di canto
di Francesco Lora
GUAI A PROMETTERE STAPPATE DI DOM PÉRIGNON, se poi si ripiega su un pignoletto di seconda mano. Al Teatro Comunale di Bologna avevano annunciato un Così fan tutte di Mozart con ripresa dell’allestimento napoletano del 1999: regìa di Mario Martone, scene di Sergio Tramonti, costumi di Vera Marzot e benedizione di Claudio Abbado, che lo volle a Ferrara nel 2000 e di nuovo nel 2004; vale a dire la messinscena di quest’opera forse la più puntigliosa e analitica, e insieme la più arguta e scorrevole, vista negli ultimi vent’anni: primato da condividere con quella viennese-ravennate del 1995, con regìa di Roberto De Simone, scene di Mauro Carosi, costumi di Odette Nicoletti e – guarda caso: sempre l’uno o l’altro – benedizione di Riccardo Muti. Ma basta voli nell’Olimpo; a un certo punto la locandina bolognese è cambiata, e per le sei recite mozartiane del 6-17 giugno è stato ripescato l’oscuro allestimento cagliaritano del 1994: regìa di Daniele Abbado e scene e costumi di Luigi Perego. Non è di gran conforto andarsi a leggere, nel programma di sala, le note di regìa stese da Abbado figlio: pensieri sparsi, appunti, sentenze, considerazioni, nebulizzazioni verbali utili a suggestionare chi legge le quattro pagine senza assistere allo spettacolo, ma nessuno scavo drammaturgico e nessun progetto esegetico esposto con chiarezza.
Pare d’essere a uno di quei vecchi spettacoli tedeschi del Dopoguerra, quando ancora Così fan tutte era considerata la sorellina demente delle Nozze di Figaro e di Don Giovanni, e la si mandava in scena con poca fiducia, qualche trovata e molta superficialità, per esempio senza afferrare e restituire la miriade di sensi doppi sparsi nel libretto. In questo caso l’idea forte vorrebbe essere quella del teatro nel teatro, evocata con la galleria-matrioska di archiscenici costruita sul palco e con l’insopportabile scorrazzare dei cantanti in mezzo al pubblico di platea (nota a margine: quando mai certi registi capiranno che un cantante d’opera tolto alla distanza del palcoscenico ha lo stesso fascino dell’albatro di Baudelaire sul ponte della nave?). Nel contempo, non si comprende l’attinenza particolare di tale idea al capolavoro di Da Ponte e Mozart: se l’appiglio registico è nella questione del travestimento, va osservato che essa è pane quotidiano nel repertorio operistico, e suona dunque come elemento neutro, indegno di radicalizzazione anche e soprattutto in Così fan tutte. All’idea fanno contorno una compagnia di canto spaesata, che recita in disomogeneità secondo l’esperienza di ciascuno, scene animate da proiezioni imbarazzanti – si vedono urtanti macchie di colore astratte, o una didascalica diapositiva col golfo di Napoli: ma cosa cambierebbe se la storia si svolgesse dall’altra parte del mondo? – e costumi macchiettistici, adatti più ai caratteri della commedia dell’arte che alla definizione dei personaggi dapontiani.
In questo scialbore teatrale, anche la direzione di Michele Mariotti illanguidisce e non ripete, suo e nostro malgrado, il miracolo musicale, narrativo ed espressivo delle Nozze bolognesi del 2012 (detto in un orecchio: la regìa era di Martone). La melodia si fa largo su tempi compiaciutamente dilatati, un legato da cantabile spegne il mordente delle turcherie e i timbri stessi si fanno rarefatti, filtrati, granulosi: una visione, questa, che sbilancia la partitura verso una malinconia contemplativa tutta da dimostrare, e che annacqua invece l’ironia, il cinismo e la filosofica illuminazione certamente chiamati in causa dagli autori. Suona poi sgradito il taglio dell’aria «Ah, lo veggio: quell’anima bella», il quale lascia un recitativo accompagnato paradossalmente concluso sul vuoto anziché diretto a un brano significativo.
La compagnia di canto è a sua volta lontana dall’ideale. A far amare la Fiordiligi di Yolanda Auyanet basterebbero il cordiale timbro latino, la dizione scorrevole, la morbidezza del canto e in generale l’armamentario della primadonna all’italiana piuttosto che i vezzi teutonici difesi dalla tradizione salisburghese; la parte, però, è lunga e onerosa, e coglie in più punti il soprano affaticato o approssimativo. È impropria la Dorabella di Anna Goryachova, sfocata nel suo grottesco incontraltirsi a ogni costo, ed è improprio il Ferrando di Dmitry Korchak, stentoreo fino a forzare l’emissione e perdere la giusta intonazione. Floridi di voce, intelligenti e autonomi sono invece Giuseppina Bridelli e Nicola Ulivieri, ma a entrambi è stata richiesta una parte poco adatta: la prima, come Despina, è mezzosoprano forbitissimo in ruolo da soprano soubrette, mentre il secondo è un Guglielmo tra i migliori in circolazione, qui dirottato su Don Alfonso senza significativo guadagno. In questo orizzonte, il re della festa diviene Simone Alberghini, attore sciolto e infervorato, ma senza eccessi, e cantante sempre riconoscibile e sugoso nel timbro, ispirato e giocoso nell’espressione, musicale e nobile nella linea: un ottimo Guglielmo.
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