
In collaborazione tra il Teatro La Fenice e il Venetian Centre for Baroque Music ha luogo la prima rappresentazione in età contemporanea di un’acclamata opera del Seicento veneziano, con una compagnia di canto valida, giovane e quasi tutta italiana
di Francesco Lora
DIVERTE ASCOLTARE INTORNO A SÉ, poco prima che lo spettacolo inizi, la caccia a chi ha letto il libretto e ha capito la solita trama d’opera veneziana del secondo Seicento, tutta peripezie, amori, travestimenti, equivoci e inganni. Caccia vana, poiché L’Eritrea di Francesco Cavalli (1652) è teatralmente un osso duro e non è oggi al repertorio: meglio assistervi, e alla fine si sarà più o meno in grado di dipanare la matassa drammaturgica dove l’azione si ribalta a ogni scena. Se non altro, da oggi e dopo tre secoli e mezzo qualcuno potrà renderne conto da spettatore: la rara opera è andata in scena per tre sere, dall’8 all’11 luglio, per conto del Teatro La Fenice e del Venetian Centre for Baroque Music. Bizzarro il luogo di rappresentazione, soprattutto considerato il passato del capoluogo veneto, dove i teatri aprivano a decine: non una sala teatrale ma il monumentale portego di Ca’ Pesaro, acusticamente favorevole ma inadatto a una buona visibilità. Quell’architettura, almeno, è già di per sé scenografia: qualche tappeto, qualche cuscino, qualche candela, lo scalone sul fondo, seta e broccato per costumi all’orientale, e tutto è pronto per la commedia.
La prima buona notizia è che la compagnia di canto è tutta giovane, a segnalare l’esistenza di una nuova valorosa generazione di specialisti, e quasi tutta italiana, a garantire le ragioni della parola, e dunque della giusta pronuncia, della dizione intelligibile e dell’accento drammatico. Accade così che i libretti distribuiti al pubblico rimangano chiusi sulle ginocchia, e che tutto risulti chiaro non leggendo, ma guardando e ascoltando; com’era e come dev’essere. Grande merito hanno i tre soprani, che ad aggravare l’intrico teatrale impersonano spesso più di un personaggio alla volta. Tutti straripano di vivacità teatrale, di gusto nel giocare col testo senza tradirlo e di perfezione tecnica nel canto, dalla pregnanza del recitativo al brio del passaggio vocalizzato. Giulia Semenzato, nelle parti di Iride ed Eritrea, è la più incisiva e coturnata; Francesca Aspromonte, nelle parti di Nisa, Laodicea e Lesbo, è la più commovente e scoppiettante; Giulia Bolcato, nella parte di Misena, è la più fascinosa di linea e timbro. Eccellente è, a sua volta, il tenore Anicio Zorzi Giustiniani come Eurimedonte: al di là della già ben nota solidità tecnica, si apprezza l’energia del suo porgere, rara tra i colleghi di pari corda e stile, e dunque l’ancor più raro rilievo retorico conferito al recitativo.
Una risorsa da tenere d’occhio è il basso Renato Dolcini, nemmeno trentenne, anch’egli diviso tra più personaggi: Borea, Alcione, Niconida e Argeo; la manodopera della musica antica è oggi scarna di voci maschili gravi, mentre egli dà qui lusinghiera prova di padronanza interpretativa. Un certo imbarazzo si appunta invece sulla prestazione delle due parti in chiave di contralto. Quella di Dione tocca a Elena Traversi, nella quale si fatica a trovare una canonica impostazione da cantante lirica, specializzata o meno nel repertorio secentesco. E quella di Teramene tocca a Rodrigo Ferreira, controtenore più per ostinazione che per dote naturale: in lui si ascolta ancora il vecchio falsettista alla britannica, falso storico nel falso storico, dal canto fioco ed estensivamente tarpato; la menomazione vocale diviene in breve passo travisamento teatrale: il dolente principe amoroso passa al rango di personaggio comico, sgangherato ad arte in ogni gesto e in ogni motto per la gioia dei filocircensi.
Eppure il lavoro registico è assai pregevole. Ne è responsabile Olivier Lexa, direttore artistico del Venetian Centre for Baroque Music, regista improvvisato ma conoscitore di questo genere di drammaturgia, delle ragioni e dei tempi della musica, del mestiere del cantante e, in definitiva, di tutto ciò che dà il colpo d’ala a un’opera agli occhi del melomane e che rimane spesso precluso a un regista di professione formato al teatro di parola. Vivida e contrastata è infine la concertazione di Stefano Montanari, che guida l’Orchestra Barocca del Festival. Una volta di più s’arriccia il naso di fronte all’uso di “microstrumentare” il basso continuo, cioè di spezzarne la linea tra più strumenti, anche per lacerti minimi, a presunti fini di esaltazione timbrico-espressiva: questa prassi, in realtà, confligge con la verità storica del Sei-Settecento, dove si osservava ben altra uniformità e pragmatismo, e intralcia il lavoro dei cantanti, sostenuti da uno strumentale sempre instabile e imprevedibile. Ma la lettura vanta per il resto attenzione e coerenza, e partecipa non senza merito al piacere della riscoperta.
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