Beethoven, Čajkovskij e Verdi sono gli autori scelti per ricordare la recente scomparsa di Abbado e il centenario della Prima guerra mondiale. Nelle letture di Riccardo Muti e nella comunione dei suoi strumentisti il testo si fa pensoso, teso, monumentale
di Francesco Lora
IL RAVENNA FESTIVAL 2014 ricorda il centenario dello scoppio della prima Guerra mondiale. E Riccardo Muti dedica alla memoria di Claudio Abbado il primo tra i suoi due concerti ravennati di quest’anno: Palazzo Mauro De André, 30 giugno. Programma visionario, eroico, anticonformista, con il Concerto n. 3 in Do minore per pianoforte e orchestra di Beethoven e la Sinfonia n. 5 in Mi minore di Čajkovskij. Enorme l’organico strumentale, con ben nove manici di contrabbassi a fare capolino dall’Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini” e dall’Orchestra Giovanile Italiana. Muti avrebbe voluto, accanto alla sua Cherubini, l’Orchestra Mozart di Abbado: ma quella sontuosa compagine ad personam, documento di un decennio di fasti oggi concluso, è ora irreperibile, senza indirizzo, in preda alla diaspora. Dalla somma della Cherubini e dell’Italiana, così, le file di strumentisti risultano davvero piene di men che trentenne giovinezza, sotto la bacchetta di un direttore dall’idea sempre più anziana e pensosa, energico e dritto alla meta, ma anche indugiante e pacato come non lo conoscevamo fino a un decennio fa.
Gli esiti retorici e il ritmo narrativo mozzano il fiato, dal mobilissimo flettersi degli archi nei moduli d’accompagnamento
La maturità tecnica di questi giovani balza all’orecchio nell’ampia cavata degli archi, nel gioco esatto dei legni, nel grandioso sfolgorio degli ottoni, nello sfumatissimo canto crepuscolare del corno solo presso il secondo movimento čajkovskijano. Il suono è quello tipico di Muti: denso d’armonici e pieno di tensione, forte come la roccia e nobile come il marmo, atto più ad assorbire la luce che a rifletterla, e talvolta velato di un pulviscolo timbrico che procura malinconica contemplazione come da un punto lontano di ascolto e meditazione. È il contraltare esatto ai bagliori edenici e ai corruschi fulgori dell’ultimo Abbado, dove tutto pareva preordinato da una natura ancora innocente, e dunque sorgivo, istintivo, spontaneo, preverbale, illuministico e senza troppi rovelli psicologici. Il concetto quand’anche faticoso e la dialettica quand’anche stridente, invece, fanno impegnativo il discorso ravennate.
Lo si coglie al massimo grado in Beethoven, e nel rapporto tra il podio di Muti e il pianoforte di David Fray, suocero e genero senza che questo ponga in discesa il loro affiancamento: l’uno erige un monumento, l’altro vi si inserisce con una nebulizzazione di fraseggi ora straniati, ora arguti, ora estatici, ora ansiosi o esausti. Non c’è mai l’esibizione virtuosistica, c’è sempre il confronto di pensieri. Come se la musica potesse essere sempre tradotta in parole. Parole esplicite ne snocciola parecchie, Muti, tra un applauso finale e l’altro: gli interessa denunciare l’abbandono nel quale versano i giovani strumentisti italiani, depositari di un’alta tradizione e usciti dai nostri conservatorii con fior di diplomi, ma profeti negletti in patria e ultimo punto d’attenzione delle nostre istituzioni; li riverisce, indicando in loro gli eredi di quelle grandi orchestre che hanno fatto la sua grande carriera, e più nei fatti che nelle parole riverisce così anche Abbado, in quel loro comune affaccendarsi per le nuove orchestre, i nuovi musicisti, una nuova musica.
Il concerto del 30 giugno pare una premessa ideale ed etica a quello del 5-6 luglio, a Ravenna nel Palazzo De André e a Fogliano di Redipuglia nel Sacrario militare. Torna l’Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini” e vi si affianca l’altrettanto giovanile European Spirit of Youth Orchestra, ma vi sono anche copiose infiltrazioni di strumentisti dai Berliner Philharmoniker, dalla Chicago Symphony Orchestra, dall’Orchestra del Teatro “Giuseppe Verdi” di Trieste, dall’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo, dall’Orchestre National de France, dall’Orchestre Symphonique du Théâtre Royal de La Monnaie di Bruxelles, dalla Philharmonia Orchestra, dai Wiener Philharmoniker e dai Conservatorii di Trieste e Udine. Il risultato è una mappa della musica nel mondo: rappresentanti delle Nazioni che si scontrarono ieri nella prima Guerra mondiale, rappresentanti della comunione che oggi e sempre unisce nel nome del far musica; là si distrugge, qui si costruisce.
In memoria dei caduti di quella e di ogni guerra, il programma prevede la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi. Ma l’operazione non è solo un simbolo: l’eccellenza tecnica dell’insieme e la dedizione emotiva consegnano serate dove l’ascolto è esaltato, compiaciuto e incredulo da una parte, e dall’altra silenzioso, turbato e impietrito. Gli esiti retorici e il ritmo narrativo mozzano il fiato, dal mobilissimo flettersi degli archi nei moduli d’accompagnamento cui mai avevamo prestato sufficiente attenzione, fino agli scoppi di ottoni mai (mai) ascoltati così sfarzosamente virtuosistici e così catastroficamente evocativi: obbligano all’esame di coscienza. È il miracolo dell’aver messo insieme le eccellenze del mondo, in un dialogo che riguarda tutti con la stessa pregnanza e lo stesso affanno. Nella fatica di spazi acusticamente infelici, al chiuso o all’aperto di notti estive afose o pungenti, si colgono insieme il sudore dei musicisti e la loro dedizione totale.
Tutto canta, anche quando Muti allunga le pause in silenzi apparentemente infiniti. Magnifici sono il Coro del Friuli-Venezia Giulia e quello del Teatro triestino, preparati da Cristiano Dell’Oste e da Paolo Vero: tecnicamente superabili, lavorano però con la consapevolezza di dover tenere fede a un impegno speciale; spremono l’anima in espressioni e colori flessibilissimi, e riescono a non far pensare ad altro di migliore. Quartetto vocale di solisti, infine, con le signore un passo avanti rispetto ai signori. Il soprano Tatiana Serjan rifiuta di cercare le vie comode e sfida sé stessa in pianissimi carichi di tensione e in slanci di bruciante drammaticità; a sua volta, Daniela Barcellona si presenta in forma superba, con un registro mediosopranile rotondo e un porgere materno e accorato, non senza qualche espressiva discesa a uno scabro registro di petto, volontaria e occasionale digressione rispetto al velluto di sempre. Più ordinario il versante virile, con Saimir Pirgu, stilizzato tenore di grazia, e Riccardo Zanellato, onesto basso il quale evoca più lo sgomento dell’uomo che l’anatema di un profeta.
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