Kirill Petrenko dirige il Ring, la regìa è di Frank Castorf, gli esiti sono sbilanciati. La musica che sorge dal golfo mistico è vecchia, ma suona nuova; gli allestimenti sono nuovi, ma tanto vecchi
di Riccardo Rocca
BAYREUTH NON È UN FESTIVAL come tutti gli altri: non solo è meta di pellegrinaggi estivi che vogliono celebrare un compositore; esso è il luogo di una vera e propria palingenesi del mito wagneriano, la sede della perpetuazione di un rito la cui sacralità non è minore a quella di un evento religioso.
A Bayreuth non si va per ascoltare nuova musica, non si scoprono nuove opere, anzi ne vengono estromesse molte, ossia tutte quelle non di Wagner, e quelle di Wagner non (ancora) ammesse al canone. A Bayreuth si va per prender parte al rito, per sentirsi parte di una comunità, per risalire alle origini della più radicale rivoluzione operistica della storia. Bayreuth è la conservazione della rivoluzione, in una miscela esplosiva di ingredienti che oscillano in modo ambiguo tra eversione, provocazione, derisione, profetismo e, appunto, conservazione.
Quel che è nuovo è vecchio, quel che è vecchio è nuovo: la musica che sorge dal golfo mistico è vecchia, ma suona nuova; gli allestimenti sono nuovi, ma tanto vecchi; il pubblico, che è vecchio, è tanto giovane; i pochi giovani sono tremendamente vecchi; le contestazioni sono vecchie e le approvazioni di giubilo nuove, ma anche l’inverso. Insomma un Festspielhaus dove passato e presente si compenetrano nella perpetuazione dell’utopia wagneriana.
Ecco dunque di fronte a noi osservatori scorrere lentamente una sequela di maschere in fila indiana come intente ad una Via Crucis verso il Golgota wagneriano. Tra di essi riconosciamo l’amorfa Brunilde di Catherine Foster, l’acerbo Wotan di Wolfgang Koch e l’improbabile Siegmund di Johan Botha; più in là intravediamo, ad una certa distanza, il Kapellmeister Thielemann, con il teutonico clangore del suo Holländer nell’ariosa – perché vi si inscena un’azienda produttrice di ventilatori – regia di Gloger con Merbeth Mužek e Youn; poi Lance Ryan – Siegfried internazionale – e il sobrio Mime di Burkhard Ulrich seguiti dall’attraente uccellino di Mirella Hagen e dall’Hagen repellente di Attila Jun. Ma in prima posizione, naturalmente, il regista Castorf, il quale, compiaciuto, arringa la folla inveente (o osannante – a Bayreuth è lo stesso).
Nulla vieta, naturalmente, di introdurre in scena baracchini di kebap, distributori di benzina texani, borse di Wall Street, coccodrilli che ingoiano ombrelli, momenti di schizofrenia di Siegfried quando, nel bel mezzo del duetto con Brunilde, la abbandona per estrarre l’uccellino dalle fauci del medesimo alligatore e quindi baciarlo; nulla vieta di trasformare l’oro in oro nero e tentare di raccontare sul pezzo di Wagner il sudicio intrecciarsi di interessi petroliferi tra Russia e Stati Uniti; nulla vieta di continuare la pratica, ormai stanca e stravista, di usare il teatro di regìa per denunciare le ingiustizie del mondo – strano che questa volta mancassero i nazisti – ; nulla vieta di usare il pretesto registico per emettere singulti di follia disorganizzata e totalmente arbitraria; nulla vieta al regista di sentirsi totalmente deresponsabilizzato nel proprio ruolo, diversamente dai musicisti che devono misurare le loro libertà all’interno di un testo che ne fissa alcuni paletti – una volta si diceva che non c’è libertà senza regole; nulla vieta, diversamente dai registi di cinema, di lavorare con le immagini totalmente incuranti di una colonna sonora preesistente; nulla vieta di farsi beffe di un autore invece di servirlo; nulla vieta nulla in arte.
Ma è probabile che signori come Frank Castorf trovino maggior spazio per le proprie folgoranti intuizioni in spazi di teatro diversi – come magari la sua Volksbühne di Berlino – dove denunce sociali di ogni tipo e bizzarrie più o meno legittime possono essere partorite al riparo da gente che di Wagner vorrebbe vedere un realizzazione veramente moderna ed innovativa, dunque coerente, intelligente e pensata. Wagner apre le porte oggi ad infinite riflessioni sullo stesso modello di teatro in musica. Di esse Castorf ha sfiorato, si teme involontariamente, soltanto un piccolo aspetto: nei momenti di totale assenza di idee, ecco infatti comparire in soccorso gli dei ex machina dell’attuale teatro di regia, i maxischermi. Ad essi Castorf affida alcuni intensi primi piani degli interpreti che sembrerebbero ricordare le simpatie di questo teatro con un linguaggio del cinema che esso anticipò di decenni. Non sarebbe stato male se il regista, accanto ai profondi temi di politica internazionale, si fosse anche incuriosito della drammaturgia wagneriana nel nostro tempo: il tal caso avremmo forse dovuto rinunciare, musicalmente, al “Pfeifkonzert” di fine Crepuscolo (“concerto di fischi”, come titolava il Nordbayerischer Kurier) e, teatralmente, al disgustoso siparietto di Castorf ammiccante al proscenio dinnanzi alla riuscita provocazione. Ma, magari, quei “terribili quarti d’ora” a cui alludeva Rossini a proposito di Wagner – e durante i quali anche il wagneriano più agguerrito sogna i Bratwürste che divorerà nella pausa ventura – avrebbero potuto per esempio trovare una compiuta ed emozionante soluzione per via cinematografica.
Dalla buca, invece, è risuonata una “regia” del Ring in netto contrasto con la scena. Kirill Petrenko, dall’anno scorso direttore musicale del Ring, non potendosi inventare un nuovo testo, si è dovuto sforzare di far interagire quello di Wagner con il nostro presente. Petrenko – che il prossimo anno si cimenterà nella Lucia di Donizetti a Monaco, dove lo scorso maggio ha presentato i folgoranti Soldaten di Zimmermann – accarezza la musica di Wagner al riparo da pregiudizi ideologici: possiede allo stesso tempo il candore di un neofita, l’infaticabilità di un perfezionista, l’intelligenza e la pignoleria di un artista che confida nell’ingegno umano più che nella sterile magnificazione di luoghi collaudati. Che il Festspielchor e l’orchestra del Festival radunino musicisti d’eccellenza non è una novità, ma straordinario è l’esito che su di essi genera il lavoro di Petrenko: sotto la sua guida rifioriscono voci del tessuto compositivo wagneriano che si pensavano andate disperse, affiora una nitidezza testuale, un controllo degli equilibri sonori, la chiarezza di una concertazione che non relega al caso il minimo dettaglio dinamico e di fraseggio. Vi è una trasparenza, nel Wagner di Petrenko, che filtra l’anelito epico del pensiero wagneriano e con esso l’ossessione di assoluto e di atemporalità: l’epos viene riletto non come cristallizzazione di moduli universali, bensì decifrato come viva e continua reiterazione degli universali nel presente. Petrenko aspira ad un Wagner che parli al nostro tempo, volente o nolente poco sensibile al fascino di lunghi e romanzati resoconti; un tempo, il nostro, avvezzo più ai cinguettii di Twitter e meno a quelli di un sibillino e verboso Waldvogel.
La partitura risuona così contemporaneamente purificata a sinistra dalle tradizioni sciatte, e a destra da quelle magniloquenti; risplende affrancata da ruffianerie ad effetto, restaurata nelle sue sfaccettature più delicate e rinvigorita in quelle più infuocate. La stessa immolazione di Brunilde non rimbomba come sbandierata fine del mondo, ma echeggia come ardente crepuscolo di un mondo possibile ma non escludente. Là sotto, dalla penombra del golfo mistico, per mano con Wagner, come Topolino con Walt Disney, Kirill ha sussurrato a noi ascoltatori increduli una fiaba incantevole.