
Yuri Temirkanov alla guida della Filarmonica di San Pietroburgo al festival MiTo accende una riflessione sull’incontro tra i due grandi compositori: rispetto e fondamentale incomprensione
di Luca Chierici
IL CONCERTO CHE LA FILARMONICA DI SAN PIETROBURGO guidata da Yuri Temirkanov ha tenuto martedì scorso agli Arcimboldi di Milano per il festival MiTo poteva offrire diversi motivi di riflessione, che si aggiungevano ai più che comprensibili sentimenti di ammirazione che ogni persona dotata di buon senso può provare nei confronti di tale direttore e di tale illustre compagine. Dei Filarmonici si lodano la straordinaria compattezza, la capacità di far percepire un evento sonoro unitario e allo stesso tempo differenziato attraverso mille particolari timbrici, il vibrato appassionante degli archi, i repentini mutamenti dinamici, la simbiosi totale con il loro chief conductor. Temirkanov esercita un controllo totale sulla propria orchestra, come se stesse suonando un immaginario strumento dal quale trae effetti possibili solamente al più raffinato solista (i rubati millimetrici che hanno caratterizzato i due bis concessi a fine serata, il Salut d’amour di Elgar e il Tango di Albeniz, ad esempio). Risultati eccellenti quanto facilmente prevedibili da tutti coloro che hanno ascoltato molte volte questi protagonisti nel corso delle numerose tournées effettuate negli anni passati nel nostro paese.
La maggior parte degli spettatori ha potuto notare, l’altra sera, come l’abbinamento scelto per l’impaginazione del programma abbia portato la sala a decretare un successo vibrante, ma tutto sommato di stima, nei confronti della lettura della Seconda sinfonia di Brahms, mentre un vero e proprio trionfo di applausi ha salutato l’esecuzione degli estratti dal secondo atto dello Schiaccianoci di Čajkovskij. Temirkanov ci è del resto sembrato comunicare una palpabile discontinuità di atteggiamenti nel transitare dal capolavoro brahmsiano, diretto con perizia ma senza una eccezionale partecipazione, alla felicissima invenzione melodica e strumentale del balletto, interpretato con una immedesimazione e un senso narrativo irripetibili.
Il risultato non è stato certamente casuale e riaccende una polemica che si trascina da quasi centotrent’anni, tanto tempo è trascorso dai due momenti d’incontro tra Brahms e Čajkovskij nel 1888-89. Rispetto e fondamentale incomprensione sono i due parametri che caratterizzarono i rapporti tra i due grandi musicisti, con una spiccata tendenza da parte di Čajkovskij a calcare la mano – almeno nella sfera del privato – nei propri giudizi su un collega che egli insiste nel definire privo di senso della melodia, freddo, arido, interessato esclusivamente all’architettura formale, seppur dotato di una apprezzabile onestà intellettuale e di una naturale avversità nei confronti di qualsiasi tipo di effetto esteriore. L’incomprensione da parte di Čajkovskij appare oggi ancor più sospetta se pensiamo che trae origine non dall’ascolto di lavori secondari (ammesso che ve ne siano nel catalogo brahmsiano) bensì da riferimenti a titoli quali il Concerto per violino o il Doppio Concerto per violino e violoncello, ai Trii per pianoforte, violino e violoncello: vale a dire quanto di più bello sia sgorgato dalla penna del compositore amburghese.
Una sensazione sotterranea di imbarazzo, dunque, nel rapporto tra questi due giganti, che si è manifestata anche l’altra sera non tanto nella resa della “Pastorale” brahmsiana, quanto nel passaggio alla paradigmatica esecuzione delle musiche per balletto, dove Direttore e professori dell’orchestra hanno fatto a gara nel sottolineare effetti sonori strabilianti e una comunanza d’intenti davvero straordinaria.