Una regìa di forti contrapposizioni quella di Michiel Dijkema. Magnetico, viscerale, perfetto Méphistophélès di Mark Schnaible. Al Teatro Comunale in scena con l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento diretta da Anthony Bramall
di Veronica Pederzolli
FAUST COME «VOCE DELLA MODERNITÀ, dell’intensità cercata nel caduco», vera e propria ossessione di un diciannovesimo secolo ch’è tutto industrializzazione, urbanizzazione e società di massa. Il Faust di Charles Gounod proposto il 21 gennaio al Teatro Comunale di Bolzano rivela l’importanza di questo momento di costruzione della società moderna: la regia di Michiel Dijkema, pur con grande attenzione alla vicenda narrata, è sempre lì a ricordarci, attraverso le grandi “masse” di persone che diventano esse stesse scenografia intrisa di vissuti, che questa di Faust è solo una storia tra le tante. E lo dimostra Valentine che muore, nella magnifica interpretazione del giovane baritono Jonathan Michie, di fronte a un campo già colmo di salme; e ancora la schiera di seguaci di Méphistophélès nella chiesa del quarto atto: preti, vescovi, suore e soldati cadaveri che, come Faust, vendettero l’anima al diavolo.
Faust viene relegato a personaggio di terz’ordine, non solo per la centralità data da Gounod alla bella Marguerite, ma anche per alcune scelte registiche che fanno quasi pensare a un Faust alla Carmelo Bene, dove Méphistophélès non ne vuol più sapere di questo «dottore del cacchio» che per troppo tempo ha occupato l’immaginario occidentale: il completo rosso in pelle, il cilindro da galantuomo e i continui fuochi da lui causati fanno di Mark Schnaible, Méphistophélès, il vero protagonista di questo allestimento; a confermarlo si ritrovano le grossi fauci di lupo che ad ogni chiusura occupano il sipario. Di fronte a lui Faust, Mario Zeffiri, non può nemmeno sguainare la spada, senza essere immediatamente immobilizzato: non regge il confronto. La sua voce poco versatile e spesso poco espressiva non rivela la duplicità del personaggio, vecchio e giovane, diabolico anch’esso ma colmo di sentimento; le “e” sempre schiacciate tolgono liricità perfino alla cavatina del terzo atto «Salut! demeure chaste et pure» e, tra i due famosi valzer, la terza ripetizione in forte di je t’aime! rovina il gioco di rimandi ai tre Dieu! del primo atto, dove invece, con l’ultimo pronunciato in un pianissimo carico di emozione, aveva dato una prova di grande musicalità.
Di tutt’altro calibro è Mark Schnaible che con il suo magnifico timbro spazia senza indugio dallo stile più drammatico del «Me voici» del primo atto, attraverso la più ironica scena del vitello d’oro nel secondo, fino ai gorgheggi più grotteschi de «La nuit de Walpurgis». Schnaible seduce pure con la fortissima presenza sul palco: anche quando Dijkema lo manda tra il pubblico ad osservare fiero il compimento dei suoi più malvagi progetti non gli si possono staccare gli occhi di dosso. È magnetico, viscerale: un perfetto Méphistophélès; il pubblico urla e lo acclama nel momento degli applausi.
Qualche “brava” arriva anche a Marguerite, Marika Schönberg, la cui vocalità versatile convince nei primi tre atti, ma non emoziona. Dal quarto atto, direttamente nella chiesa, come vuole Dijkema che comunque mantiene la scena on ruet, trova invece una liricità drammatica molto fine che porta ad un quinto atto con acuti da pelle d’oca.
Nella buca vi è l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento diretta dall’attento Anthony Bramall. Orchestra che, come ricorda la presidente Chiara Zanoni Zorzi, proprio in questa data «ha ottenuto, primo caso in Italia, una doppia qualificazione dal parte del Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo come istituzione concertistico-orchestrale e gestore del Teatro di tradizione» a seguito della creazione di un vero e proprio “sistema regionale” per lo spettacolo musicale.
E se si parla di spettacolo Michiel Dijkema lo ha sicuramente regalato: forti contrapposizioni che rivelano da un lato quell’aspetto di “volgarizzazione pop” del Faust che Gounod e i suoi librettisti derivarono dalle Porte Saint Martin, e che la regìa sottolinea con la lascività del valzer, con l’orgia dei morti sulla marcetta del finale o più finemente con i tratti ironico-grotteschi ricercati in Méphistophélès. Dall’altra il superamento in Gounod della teatralità esteriore del Grand-Opéra si riflette nella cura registica, spesso orientata ad una simbologia religiosa che sottende forti legami non solo con la trama dell’opera ma anche con dati biografici di Gounod, come la vocazione al sacerdozio. Coraggiosa inoltre la costruzione del quinto atto in Dijkema, per ovviare a quella mancanza di drammaturgia che lo stesso Verdi lamentava in quest’opera, decide di riprendere «Il Était un Roi de Thulé» per evocare, come Gounod aveva originariamente previsto, il momento di estrema follia che porterà Marguerite all’infanticidio. Poco dopo inserisce una nuova scena con l’eccentrica Siébel, Kathrin Göring, in cui la disperazione si abbandona nel suono di uno sparo in bocca, paragonabile solo al tonfo della ghigliottina per Marguerite. Méphistophélès sembrerebbe aver trionfato, ma il Coro dell’Opera di Lipsia dai palchetti annuncia di Marguerite: «Sauvée».
Una piccola curiosità: che cosa vuol dire “on ruet”?