Brahms, Ligeti e Varèse. Prove aperte e concerto per la prima alla Scala del violinista statunitense
di Luca Chierici
PER LA RIPRESA INVERNALE DELLA STAGIONE, la Filarmonica della Scala si è cimentata in un concerto che richiedeva un impegno straordinario per la densità del tessuto orchestrale tipica di due grandi lavori del novecento storico presentati da Fabio Luisi nella seconda parte della serata, Lontano di Ligeti e Amériques di Varèse, partiture entrambi formidabili per motivi piuttosto differenti. Lontano è tuttora difficilmente proponibile a un pubblico non avvezzo all’ascolto di musiche che sottintendono un’architettura formale interna di percezione impossibile a chi non abbia analizzato metodicamente la partitura. I musicisti della Filarmonica hanno successivamente assolto al massacrante compito finalizzato a riversare sugli astanti il torrente di suoni del frastornante Amériques, sotto la guida di un Luisi che ha dimostrato una non scontata maestrìa e partecipazione nel districarsi attraverso i due spigolosi lavori. Non altrettanto felicemente il direttore ha saputo illustrare il magnifico concerto brahmsiano che aveva aperto la serata, concerto che spesso può essere reso pesante, faticoso, quasi un muro che si erge di fronte alla voce di un violino pure agguerrito e di voce particolarmente intensa come era lo Stradivari davvero posseduto da Joshua Bell.
Luisi ci è parso avviare con fatica un discorso che si sarebbe voluto molto più fluido, spontaneo, e da parte sua il solista si è avventurato in una lettura che si ammirava più per il piglio virtuosistico, come se l’immane parte venisse considerata a sezioni, piuttosto che congiunta in un discorso intimamente connesso all’impianto sinfonico della composizione. Il Concerto di Brahms non è il soggetto migliore per avvicinarsi a un artista come Joshua Bell, magnifico strumentista che era oggi al suo debutto scaligero. Bell è stato costantemente presente a Milano fin dal lontano 1987: era un ragazzino di 19 anni dal look tipicamente americano, che si faceva volentieri fotografare in jeans e maglietta e che oggi – di anni ne ha quarantasette – ha ancora conservato un aspetto fisicamente davvero invidiabile. Non si poteva rimanere indifferenti, allora, di fronte a un giovane che sprizzava scintille nel Tema con variazioni di Wieniawski e che suonava con freschezza e eleganza persino l’elusiva prima Sonata di Fauré, e siamo grati alle Serate Musicali per avere invitato ripetutamente nella nostra città il violinista nel corso di una ventina d’anni a fianco di accompagnatori di prima classe come Zoltán Kocsis o Jean-Yves Thibaudet.
Una carriera di successo, quella di Bell, che lo ha portato a suonare ovunque e a dedicarsi con insolita partecipazione alla musica da camera, esplorare territori al di fuori del consueto repertorio, entrare in felicissima sintonia d’intenti con altri solisti come Lonquich o Angelich e persino la Wang. Il pericolo, ascoltando Joshua Bell nel Concerto op.77, è quello di essere portati a ridurre la partitura brahmsiana che profuma ancora di Berliner Philharmoniker, di Milstein o Menuhin, di Furtwängler, a un mal riuscito concerto di Vieuxtemps, l’autore che Bell ha omaggiato a fine serata con l’improbabile scelta di un virtuosistico Souvenir d’Amérique, una veloce serie di variazioni su Yankee Doodle, il tune che i più grandi virtuosi dell’Ottocento, violinisti o pianisti, volentieri arrangiavano per proporlo come bis durante le loro tournée americane. Bell usa questo gioiellino innocuo addirittura per illustrare la magnificenza di un Guarneri posseduto dallo stesso Vieuxtemps e ha concluso così la sua parte di serata con un trionfo di applausi.