In scena al Teatro Massimo il titolo verdiano. La regìa è di Massimo Gasparon con la direzione musicale di Paolo Arrivabeni
di Monika Prusak foto Rosellina Garbo
LA RIPRESA DELL’ALLESTIMENTO storico parmense di Un ballo in maschera di Pier Luigi Samaritani del 1989 si è rivelata per il regista Massimo Gasparon un’impresa di immediato approccio per alcuni aspetti tecnici, ma meno riuscita per quanto riguarda l’azione scenica. Senza dubbio avvincenti appaiono i cambiamenti dell’illuminazione (Andrea Borelli), che diventa moderna e smagliante, risaltando in maniera sorprendente il contrasto tra la bellezza e la colorazione mozzafiato dei costumi e degli oggetti scenici – ridisegnati da Gasparon per questa attualizzazione – e la cupezza dei fondali, per lo più grigi e neri. Il segreto sta anche nella scelta accurata di tessuti preziosi come la seta e nell’uso dei proiettori mobili computerizzati, che permettono di far emergere ancor di più i cantanti protagonisti. Alla bellezza dei costumi si aggiunge la monumentalità delle scene che, tuttavia, oscillano tra il reale e l’onirico, senza dare una risposta unica all’ambientazione dell’opera. Mentre l’abitazione dell’indovina Ulrica si tinge giustamente di toni e luci fiabeschi, stona l’aspetto eccessivamente fantastico del cimitero nel bosco della scena di Amelia. Risultano molto efficaci, invece, le scene iniziali nel palazzo americano di Riccardo, quelle all’interno della casa di Renato con una riproduzione di alcuni strumenti musicali e di un mappamondo al centro della scena, con impronta caravaggesca nelle luci e nei costumi, nonché la scena del ballo finale, spogliata di ingombranti praticabili previsti nella versione originale di Samaritani.
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In questo splendido gioco di colori e scene è mancato un ulteriore intervento affinché l’attualizzazione potesse realizzarsi appieno, ovvero quello di modificare la staticità estrema dell’azione scenica caratteristica dell’interpretazione di Samaritani. Anche se, come spiega lo stesso Gasparon, si tratti di un «artificio dichiarato», nel XXI secolo non convince più l’impostazione ferma del cantante protagonista, pietrificato in posa da vocalizzo: l’approccio contemporaneo alla recitazione teatrale, anche a quella operistica, chiederebbe di rivisitare questo aspetto fondamentale della rappresentazione. L’immobilità dei cantanti ha provocato, inoltre, un atteggiamento poco partecipe da parte del pubblico che ha deciso unanimemente di non applaudire alcuni pezzi d’insieme, abbandonando gli interpreti al silenzioso vuoto delle pause musicali. La direzione omogenea, intensa e coinvolgente di Paolo Arrivabeni è stato uno dei punti forti dello spettacolo. Tuttavia, la sua interpretazione dei pezzi d’insieme, il modo di sostenere le voci, costruire le atmosfere e le dinamiche, sono stati spiacevolmente interrotti da alcuni evidenti suoni calanti nei fiati.
Tra i protagonisti spicca la figura distinta di Riccardo, interpretato da Roberto Aronica con voce fresca e adatta al ruolo. Anche Renato di Giovanni Meoni convince per la linearità dell’interpretazione e la voce scura e vellutata. Risulta poco espressiva Amelia di Oksana Dyka, che non riesce a sottrarsi, almeno con la mimica, alla staticità generale dell’azione. Tichina Vaughn è una possente Ulrica, ma, nonostante l’azione sia ambientata in America, la sua mancanza di precisione nella pronuncia diventa un elemento dissonante. L’unica a ravvivare l’azione è Zuzana Marková nel ruolo del paggio Oscar, che con la sua deliziosa vocalità di soprano leggero e il modo più naturale, svelto e allo stesso elegante di muoversi in scena, ha provocato ancora più insofferenza verso l’immobilità del resto del cast. Una nota positiva va ai personaggi secondari, Silvano di Nicolò Ceriani, Samuel di Paolo Battaglia, Tom di Manrico Signorini e Un giudice/Un servo di Amelia di Cosimo Vassallo. A parte qualche difficoltà nelle parti di agilità, il Coro del Teatro Massimo ha superato la prova con discreto successo.
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