L’opera di Nicola de Giosa (1819 – 1885) in scena al Festival della Valle d’Itria, in coproduzione con il Teatro San Carlo di Napoli. Meritevole la proposta e buon successo per l’intera compagnia
di Luca Chierici
IL FESTIVAL DELLA VALLE D’ITRIA di quest’anno ruota in un certo senso attorno al nome di Gaetano Donizetti senza mai includere una sua opera nel programma. Al maestro di Donizetti, Simone Mayr è dedicata la ripresa di uno dei lavori più celebrati nel passato, la Medea in Corinto, mentre dell’allievo Nicola De Giosa viene eseguito il Don Checco, opera comica prediletta da Ferdinando II di Borbone ed esempio di un genere tipico della scuola napoletana nel secolo diciottesimo ma ancora in voga nella metà dell’Ottocento.
Bastano pochi accorgimenti del regista Lorenzo Amato, le scene essenziali di Nicola Rubertelli e i costumi di Giusi Giustino per trasformare il cortile di Palazzo Ducale in un borgo nei dintorni di Napoli
Già nel 2012 a Martina Franca era stato rappresentato un titolo che, pur con diverse sfumature, rientrava nel solco di una tradizione buffa oramai in declino: Crispino e la comare dei fratelli Ricci era in realtà un “melodramma fantastico-giocoso” che, eseguito per la prima volta a Venezia nello stesso anno del Don Checco (1850), si rifaceva alla medesima tradizione di teatro dialettale e, come nel caso dell’opera di De Giosa, aveva conosciuto un franco successo di pubblico in un’epoca in cui la frattura tra musica “colta” e musica di consumo doveva ancora avere luogo.
Nicola de Giosa (1819 – 1885), barese che divise con Piccinni la gloria di maggior compositore della città, e al cui nome si sarebbe dovuto intitolare l’odierno teatro Petruzzelli, studiò a Napoli e si distinse a tal punto da diventare allievo e collaboratore di Donizetti e poi di Mercadante, debuttando nel 1842 al Teatro Nuovo di Napoli con un’opera comica, la prima di una serie fortunata che riscosse grande successo soprattutto nella città partenopea. Don Checco, rappresentato ancora in quel teatro nel 1850 con un centinaio di repliche, nasceva in un momento in cui l’ambiente musicale, almeno nel settentrione, rivolgeva i propri interessi al Verdi de I due Foscari e dava definitivamente l’addio a un genere buffo che non era più in linea con i tempi.
La carriera di De Giosa ebbe poi un seguito interessante e imprevedibile che lo vide addirittura al Cairo (avrebbe persino dovuto dirigere la prima esecuzione di Aida) e a Buenos Aires, dove fu direttore del teatro Colón nel 1873. Ma a Napoli egli rientrò e si cimentò nuovamente con un’opera comica (Napoli di Carnevale, 1876) per morire nella propria città natale nell’85. Don Checco approda a Martina Franca attraverso una coproduzione del Teatro San Carlo (la revisione della partitura è di Lorenzo Fico) che contribuisce a rivitalizzare le specificità di uno humour difficile da proporre ai nostri tempi se non sul filone del recupero storico. Ma bastano pochi accorgimenti del regista Lorenzo Amato, le scene essenziali di Nicola Rubertelli e i costumi di Giusi Giustino per trasformare il cortile di Palazzo Ducale in un borgo nei dintorni di Napoli dove tutto si consuma nella cornice di una vecchia osteria. La vicenda semplicissima che è motore di questa come di mille altre rappresentazioni teatrali della tradizione italiana prende vita come per magia grazie ovviamente anche ai cantanti che si sono distinti tutti in ruoli non così banali per impegno vocale e scenico e al giovane direttore Matteo Beltrami, che ha sottolineato la vivacità dello strumentale senza cadere in effetti di dubbio gusto. Nel ruolo del titolo, Domenico Colaianni è stato il vero mattatore della serata, completamente a proprio agio in una parte che più di tutte richiedeva un completo dominio scenico, la padronanza del dialetto napoletano e quella di una velocissima sillabazione che diventa qui già parodia di un accorgimento vecchio di più di un secolo. Sulla falsariga del ruolo di Don Checco si dipana quello dell’oste Bertolaccio, interpretato da una bravo Carmine Monaco.
La giovane rivelazione maschile della serata è stato il tenore Francesco Castoro, voce fresca che speriamo rimanga tale evitando ruoli futuri a lui non congegnali, ma soprattutto Carolina Lippo, deliziosa Fiorina cui sono dedicati tra i momenti più belli del lavoro di De Giosa, voce educatissima e di timbro squisito, che riascolteremo sicuramente nel proseguimento di una carriera importante. Fuoriclasse per temperamento e vis comica è stato il basso Rocco Cavalluzzi nel ruolo del Conte, attorno al mecenatismo del quale ruota l’intera vicenda. Il baritono Paolo Cauteruccio ha ugualmente ritratto con efficacia il personaggio di Succhiello Scorticone, che perseguita il povero Don Checco fin dalla sua apparizione in scena attraverso le fila di spettatori seduti nell’atrio di Palazzo Ducale. Buon successo per l’intera compagnia per una serata di piacevole intrattenimento che a quanto pare si inserisce nel contesto di un recupero di un genere dimenticato destinato a protrarsi nel tempo nella programmazione del Festival.