L’opera di Marco Tutino commissionata dal Festival della Valle d’Itria, dove l’abbiamo ascoltata in prima esecuzione italiana, e dal Maggio Musicale Fiorentino. Una narrativa giocata sul rimpianto del tempo passato e tratta da Le braci dello scrittore ungherese
di Luca Chierici
IL ROMANZO DELLO SCRITTORE UNGHERESE Sándor Márai (1900-1989) che in traduzione letterale suona “Le candele si consumano lentamente” e che è stato pubblicato in Italia nel 1998 con il titolo di Le braci è al centro dell’ultima fatica di Marco Tutino, commissionata dal Festival della valle d’Itria e dal Maggio Musicale Fiorentino. Márai affronta temi delicati e sempre attuali che ruotano attorno ai valori dell’amicizia appena incrinata da una differenza di ceto sociale, all’amore per una stessa donna, il tutto immerso in un periodo storico, quello della finis Austriae, che sembra fatto apposta per fare da sfondo a una narrativa giocata sul rimpianto del tempo passato e sulla resa dei conti di vicende sentimentalmente ingarbugliate. Il fuoco della passione si spegne lentamente e diventa brace, una brace che allo stesso tempo può significare l’affievolimento delle antiche emozioni ma anche una pericolosa miccia che può innescare nuovamente le rivalità.

Dal racconto, Tutino ha tratto un libretto d’opera e ha posto le basi per uno spettacolo – quella di Martina Franca era la prima esecuzione italiana – condotto con sensibilità del regista Leo Muscato, con i costumi di Silvia Aymonino e le scene di Tiziano Santi che raffiguravano una sala di un palazzo un tempo arredato con un certo sfarzo e oggi ridotto a una maceria. In tale contesto i due protagonisti (il Konrad di Alfonso Antoniozzi e lo Henrik di Roberto Scandiuzzi) rivivono dopo quarant’anni la loro vicenda con uno sdoppiamento di personalità e attraverso una serie di continui flash back che coinvolgono le loro controfigure giovanili (Davide Giusti e Pavol Kuban), l’amata Kristina (Angela Nisi) e la governante Nini (Romina Tomasoni), tutti interpreti davvero coinvolti nel gioco delle parti e, nel caso soprattutto di Scandiuzzi e Antoniozzi, di grande classe. Un soggetto di questo genere, se trasposto cinematograficamente, potrebbe essere commentato da una colonna sonora che si avvicinerebbe alle linee della musica di Tutino, una musica che riecheggia motivi vagamente brahmsiani (l’introduzione è scandita da un ritmo che ci ricorda l’incipit della prima sinfonia), echi di valzer straussiani e una linea melodica vagamente neoromantica. Se questa è musica contemporanea, si capiscono oggi tanti fenomeni più che criticati da coloro che sostengono ancora le ragioni della ricerca, dell’impegno formale. È vero, come diceva Schönberg, che (c’era) ancora tanta buona musica da scrivere in do maggiore, ma anche i tempi di Nino Rota oramai sono trascorsi e allora i casi sono due: o ci si accontenta di eseguire la musica del passato o si tentano le vie della creatività basata su altri parametri.
Lo spettacolo in sé è piaciuto al pubblico perché i temi di una Welt von Gestern esercitano tuttora un certo fascino e gli interpreti tutti, compresi i bravissimi elementi della Fattoria Vittadini, si sono immedesimati in una vicenda che ha tutti i numeri per immergere lo spettatore in una piacevole malinconia rischiarata da momenti di azione (quelli rivissuti come in un sogno) che vengono commentati da Tutino alternando pagine più liriche a una buia staticità che descrive il presente e la fine del tutto. Successo franco, con un debito di riconoscenza per i veterani del palcoscenico, Scandiuzzi in primis, il compositore e i protagonisti dell’allestimento.