Al Filarmonico di Verona secondo appuntamento del Settembre dell’Accademia: l’Orchestra Filarmonica di Novosibirsk è stata diretta da Gintars Rinkevicius. Nella seconda parte il Concerto per violino op. 35, solista Itamar Zorman
di Cesare Galla foto © Studio Brenzoni
NELL’ULTIMA SINFONIA di Čajkovskij c’è un passaggio che, fra tante gemme, illumina con particolare evidenza la genialità dell’invenzione di quest’autore, il virtuosismo della strumentazione e specialmente il suo lucido controllo di tutti i mezzi espressivi. Sono pochi secondi, ma dimostrano come la formidabile tensione emotiva di questa musica non sfugga mai a un fermissimo controllo delle intenzioni creative e dei mezzi per realizzarle. Un metodo e uno stile che caratterizzano tutta la partitura e fanno della Patetica (1893) una pietra angolare del Decadentismo europeo, anche a prescindere dal fatto che vi si riconosca comunemente una inquietante premonizione della morte, se non addirittura – com’è stato autorevolmente sostenuto – l’ultimo messaggio di un suicida. Tutto dipende da come si “legge” il mistero della fine di Čajkovskij, questione controversa, ancora oggi in attesa di una definitiva soluzione.
Si tratta, nell’ultimo movimento, dell’unico passaggio di tutta l’opera in cui intervenga il tam-tam, che singolarmente in partitura viene definito “ad libitum” (forse per motivi pratici: questo grande gong è uno strumento ingombrante, non proprio comune). Un intervento in realtà a cui nessun direttore vorrebbe mai rinunciare. Per la durata di quattro battute, in piano, il suono del tam-tam emerge come una visione spettrale dall’improvviso silenzio di tutta l’orchestra, quasi un terrificante sipario che si apre sulla visione del nulla, affidata al Corale dei tromboni, che partono fra piano e mezzopiano per poi concludere nel giro di altre quattro battute la loro desolata perorazione in uno sbalorditivo pianissimo con cinque p, sulla carta un suono ai limite dell’udibile. Quindi attacca la tragica Coda, Andante giusto, con tutti gli archi con sordino che si spengono quasi a fatica, tormentosamente (“ritenuto” e pianissimo con quattro p). Solo Mahler, 17 anni più tardi, avrebbe scardinato in eguale misura nella sua Nona la tradizione formale della Sinfonia romantica, con i suoi finali eroici e “positivi”.
Per rabbrividire non occorre sapere che nove giorni dopo il debutto di questa sua Sinfonia a San Pietroburgo, Čajkovskij sarebbe morto all’età di cinquantatré anni, il 6 novembre 1893. Ma saperlo getta una luce ancora più tragica su questa pagina per la quale l’appellativo Patetica, voluto dal fratello del compositore dopo la sua morte, risulta francamente stucchevole. Se la prima esecuzione, direttore il compositore, lasciò interdetto il pubblico, la seconda, poche settimane dopo, fu una sorta di Requiem (e citazioni del Requiem ortodosso appaiono in realtà nel primo movimento) e di celebrazione funebre per il musicista scomparso prematuramente da pochi giorni, in una temperatura emotiva altissima.
Andandosene così tragicamente, Čajkovskij si portò nella tomba anche il “programma” della sua ultima Sinfonia, del quale durante la composizione aveva parlato, specificando però che non l’avrebbe mai reso noto. A maggior ragione, a prescindere dai “contenuti”, restano (e sono più che sufficienti) la scienza e l’arte del compositore, il suo virtuosismo tecnico messo al servizio di intenzioni espressive profonde e inquietanti, in una musica che racconta il tormento di esistere come solo i grandi capolavori dell’arte e della letteratura del suo tempo sanno fare.
Al Filarmonico di Verona, secondo appuntamento del Settembre dell’Accademia, la Sinfonia n. 6 è stata il momento forte del concerto dell’Orchestra Filarmonica di Novosibirsk, compagine ormai vicina ai sessant’anni anni di attività, con la singolare peculiarità di avere vissuto il suo primo mezzo secolo insieme alla stessa bacchetta direttoriale, quella del suo fondatore Arnold Katz. Oggi affidata al maestro lituano Gintars Rinkevicius, l’orchestra siberiana esprime una solida efficacia, equilibrata nei settori pur con la preminenza delle ottime file dei violini e dei violoncelli rispetto a fiati e ottoni volenterosi ma non sempre precisi. Il suono è compatto, capace sia di trovare la brillantezza necessaria ai due movimenti centreali della Sinfonia sia di cogliere lo spessore espressivo affidato specialmente agli archi nelle parti lente che incorniciano la composizione. Rinkevicius non si concede digressioni né lampi di fantasia: dirige con rigore, articolando nettamente i piani dinamici (molto ben riuscita, peraltro, la definizione della pagina cruciale cui si accennava all’inizio) e delineando tempi quadrati e un po’ rigidi all’interno di un fraseggio che non guarda oltre la lettera.
La serata era tutta dedicata a Čajkovskij e si era aperta con una delle stelle nascenti del violinismo internazionale, l’israeliano trentenne Itamar Zorman, impegnato nel celebre Concerto op. 35, cavallo di battaglia di generazioni di virtuosi dell’archetto e suo “passaporto” per la vittoria al prestigioso Concorso Čajkovskij di Mosca nel 2001. Esponente di una generazione che sembra ripudiare la tecnica “eroica”, Zorman ha suono elegante e tutt’altro che massiccio (imbraccia un pregevolissimo Guarneri del 1745), grande agilità e predisposizione alla ricercatezza dinamica, precisione indubbia ma non particolarmente trascinante. Talvolta finisce sovrastato dalla Filarmonica siberiana, con cui peraltro dialoga in scioltezza e sicura musicalità specialmente laddove la partitura offre squarci di introspettivo lirismo.
Le cordiali accoglienze del pubblico lo hanno indotto a una sentita e intima esecuzione della Melodia ebraica di Joseph Achron. Quanto all’orchestra, doppio bis in totale contrapposizione all’atmosfera della Patetica: la popolare Farandole dalle musiche di scena di Bizet per L’Arlesienne di Daudet, e una versione per grande organico del Libertango di Astor Piazzolla.