
La tournée franco-italiana della Filarmonica di San Pietroburgo affianca al consueto Rimskij-Korsakov un Mahler inatteso: appuntamento straordinario del Bologna Festival
di Francesco Lora
TRA LE ORCHESTRE STRANIERE DI RILIEVO MONDIALE, la Filarmonica di San Pietroburgo è forse quella più continuativamente presente in Italia. Da essa vengono, a ogni tournée, non tanto i tratti di novità e la sottigliezza della lettura, quanto piuttosto l’esibizione di uno tra i più colossali e disinibiti materiali sonori: archi di inaudito legato e densità, ottoni dall’echeggio maschio e nero, legni che stupiscono nella perfezione dei passi solistici ma ancor più nel saettante allineamento della sezione intera. Poche sorprese vengono dalla mente che sovrintende alla macchina da guerra: a ogni giro, la bacchetta è sempre quella del direttore musicale Yury Temirkanov. E poche sorprese vengono anche dai programmi presentati: il repertorio, scelto tra i capolavori della scuola russa tra Otto e Novecento, vede a rotazione una rosa pressoché fissa di titoli.
Non così nel concerto appena eseguito a Parigi, Aix-en-Provence, Udine e Roma, e in particolare nel Teatro Manzoni di Bologna, il 29 ottobre, per un appuntamento straordinario del Bologna Festival. La prima parte del programma confermava quanto detto: diretta da Temirkanov, rispunta la suite sinfonica Shéhérazade, op. 35 di Nikolaj Rimskij-Korsakov, già ascoltata due anni or sono nel Teatro degli Arcimboldi di Milano per il Festival MiTo. La seconda, però, coglie quasi impreparati: Sinfonia n. 1 in Re maggiore “Titano” di Gustav Mahler, in una visione non bombastica e tuttavia sfarzosamente materica, un poco ingessata e poco incline al gioco timbrico e grottesco, ma ben disposta a una stilizzata malinconia, alla nitida restituzione del testo, nonché a dare fuoco alle polveri in una fiammeggiante coda finale, capace di sprofondare la platea in artistica ed esaltata soggezione.
La padronanza del linguaggio musicale, va da sé, si conferma maggiore in un Rimskij-Korsakov dove i sanpietroburghesi possono dettare legge. L’impasto immane si scioglie in un’infinità di colori fiabeschi, il ritmo inesorabile si strugge nella voluttà del tactus, il primo violino – stoicamente rimasto anonimo nel programma di sala – afferra con articolazione decisa e virile la sua estesa parte solistica, restituendola sublime nell’intonazione, senza termine per cavata, compiaciuta dell’abbraccio che le serra intorno un’orchestra davvero degna delle Mille e una notte. Chi conta, più che mai qui, è la Filarmonica: a lei l’officio, il mistero, il prodigio. Sul podio, Temirkanov se ne conferma l’inamovibile pontefice massimo, l’esperto presidente del rito, ma anche il servo di una sacralità che non ammette il capriccio né tantomeno un padrone.