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Un’«Elektra» irrisolta in scena a Bologna

di Giampiero Cane
18 Novembre 2015
in OPERA, RECENSIONI
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Home OPERA
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L’opera di Strauss resta in cerca di un’interpretazione di riferimento. In prima italiana la produzione internazionale rappresentata a Bruxelles e Barcellona


di Giampiero Cane foto © Rocco Casaluci


BOLOGNA. CHE BUFFO! Il Comunale ha un cartello pubblicitario che dice: «I titoli di lirica più celebri si alternano a inedite proposte e trascinanti spettacoli». Naturalmente è pubblicità e perciò di nessun peso, ma apri il programma e trovi Carmen, Barbiere di Siviglia, Attila, Nozze di Figaro, Rigoletto e Werther. Tra queste s’infiltra “Vangelo opera contemporanea Pippo Delbono” (sic), che è un bravo coreografo della sofferenza, ma ci chiediamo cosa il titolo vorrà dire, un musical, Titanic, di Maury Yeston, che sarà un musical, e Conversazioni con Chomsky 2.0, di Emanuele Casale. Probabilmente i nostri interrogativi riguardano le inedite proposte, ma se si tratterà di spettacoli trascinanti o delle solite “soppe” (alla napoletana, le soap opera) ciascuno se lo dirà a tempo e luogo. Domenica sera, intanto, è andato in scena un allestimento di Elektra andato in scena a Bruxelles e Barcellona.

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L’opera di Richard Strauss che in catalogo vien dopo la più frequentata Salome, di più felice riuscita, non è affatto di facile esecuzione, anzi. Probabilmente l’aveva capito già il compositore, che arretrò in seguito verso più solide sponde. Il fatto è che in quest’opera l’orchestra e i cantanti non vanno d’accordo. Quella vuole avere ragione di questi, ma se vince l’opera fallisce. Strauss, tutti lo sanno, aveva preso il così detto testimone da Wagner, cioè da un autore che s’era fatto fare il suo teatro nel quale dettava leggi che altrove suonavano assurde. Nel comporre la sua musica però egli s’era spinto in territori inusitati, se non del timbro, almeno dell’armonia. Ereditandone la lezione, Strauss non cercò oltre Tristano, ma se ne stette nel linguaggio che c’era, arricchendolo coloristicamente come vetrate dell’Art Nouveau o dello Jugendstil (questo e quella assunti come moda, semplicemente).

Egli fu sicuramente un artista le cui qualità non sono facili da collocare. Sui tempi di Wagner era certo in ritardo, anche se la sua frazione di staffetta la corse poi benissimo (se di una staffetta si può parlare), ma è altrettanto certo che di quel che di importante avvenne nella Germania della prima metà del Novecento o non capì nulla o, peggio, fu correo. Diciamo che la cultura e l’arte espresse dalla repubblica di Weimar non lo toccarono affatto, mentre se ne andava avanti usando in maniera un po’ meno entusiasta gli strumenti del suo abbecedario musicale, acquisendo anche, come in Capriccio, quel tratto di ironia o di baruffe teatrali che lo stesso Wagner sa esprimere nei Maestri cantori, anche ignorando – o forse no – il Goldoni.

Scrivendo che non è di facile esecuzione, s’intendeva anche dire che non c’è stata ancora una realizzazione musicale che si sia imposta come interpretazione fondamentale. E’ un’opera con la quale si vaga tra i clangori orchestrali che a volte paiono proprio insensati, come un technicolor sempre “sparato” (il che avrebbe anche senso a partire dalla storia, ma non diremmo dal libretto) e i deliri di Elektra che, alla fine dovrebbe morire in una sua danza folle (ma ve l’immaginate con le soprano wagneriane, peggio di una maestra elementare armata di bacchetta di canna). Per il resto il libretto, ridotto da Hofmannsthal da un dramma che già aveva scritto, non è un esempio di follia teatrale. Cerca di farlo diventare un po’ così il regista Guy Joosten che inutilmente accenna all’entrata di personaggi che avranno solo più avanti un ruolo nell’azione. Questo Joosten agisce nel caso come se fosse un regista di telenovele, spingendo avanti un pezzo che solo quando ce ne saremo dimenticati avrà un suo ruolo. Ma l’allestimento di un testo non è una partita a scacchi e nemmeno un giallo. Non gliene frega niente a nessuno del come mai quel pezzo entri in scena, ma solo di quel che fa dal momento che c’è.

Qualche anno fa, in epoca di cultura di sinistra (lo diciamo come indicazione sommaria) Strauss aveva avuto un interessante momento di rilancio della sua produzione, oggi suona tronfio e vuoto, anche se ben fatto, come in regimi che hanno conquistato i poteri. In questo senso si capisce anche il grande strepito orchestrale, che non ha una reale corrispondenza con passioni che siano rappresentate, ma che naviga sull’onda della propria retorica.

Quest’opera, come sa chiunque la conosca, è in un solo atto e dura poco più di 100 minuti, la scena è una, in successione vi cantano due soprani, un mezzo, un tenore e un baritono. Il tenore, che è l’Egisto che deve morire in quanto correo nell’uccisione di Agamennone, padre di Elektra, qui fa un po’ l’amichevole buffone: non ce ne sarebbe bisogno alcuno. Crisostemide, sorella di Elektra è femmina biologica che vorrebbe vivere e figliare e godersi quel che si gode della famiglia. Elektra è solo vendetta; Clitemnestra, la vedova, ormai d’Egisto, non si sa bene: diciamo che tira a campare nella sua “misera” condizione di regina. Quando Oreste, fratello di Elektra ritenuto morto, ricompare, lei non lo riconosce. Egli invece non ha dubbi, ma sa d’essere entrato nella casa ch’era del padre e che lì ci sono i resti della famiglia, sicché il drammaturgo ha buon gioco a fare un accenno all’Odissea e al cane di Ulisse, Argo, che lo riconosce.

Senza finezza alcuna la direzione di Lothar Zagrosek, ma non scorretta. Non risolve alcun problema e mette in difficoltà soprattutto la voce di Elektra tra tempestosi marosi orchestrali. La produzione va col ritmo del teatro leggero, sicché dopo la prima di domenica sera, le recite vanno a giorni alterni fino al prossimo weekend (in palcoscenico sia sabato che domenica). Ciò implica naturalmente che almeno Elektra e Crisotemide cambino interprete. Noi abbiamo sentito Elena Nebera (Elektra) e Anna Gabler (la sorella); altre due recite sono per loro, alternandosi con altre due soprano. La cronaca, nel registrare calorosi applausi al termine della prima, rende noto che il teatro ha abbattuto il prezzo d’ingresso, rendendolo per le repliche concorrenziale con quello dei cinematografi.

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Tags: ElektraGuy JoostenLothar ZagrosekRichard StraussTeatro Comunale di Bologna
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Giampiero Cane

Giampiero Cane

Dagli anni Sessanta critico musicale per quotidiani e riviste, collabora ancora oggi con il manifesto. Ha insegnato nell’Università di Bologna, avendo la cattedra di Civiltà musicale afro americana, ma coprendo per sei anni anche l’insegnamento di Storia della musica moderna e contemporanea. È autore di alcuni libri, tra io quali si possono ricordare Tre deformazioni dolorose: Sade, Rossini, Leopardi, Canto nero (sul free jazz), MonkCage (sul Novecento musicale Usa), e Confusa-mente il Novecento.

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