Il grande interprete torna al Teatro alla Scala con due compositori che ha moltissimo approfondito nel suo repertorio
di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
LA PRESENZA DI MAURIZIO POLLINI è un evento che da sempre catalizza tutta una serie di emozioni difficilmente spiegabili, come del resto è sempre accaduto per gli artisti dotati di un innegabile carisma. E capita anche che si crei un vero proprio stato di agitazione tra il pubblico che per un motivo o per l’altro non è riuscito a entrare in sala in tempo utile, irrequietezza che si propaga inevitabilmente all’interno anche a causa del ritardo con il quale il concerto ha inizio. Accadde ad esempio una sera di novembre di ventisei anni fa al Conservatorio, quando il pianista si trovò costretto, già seduto alla tastiera, a dover attendere per una buona manciata di minuti i ritardatari che si affannavano a prendere posto, causa disguidi e malintesi al botteghino. Era una sofferenza per tutti i presenti – e possiamo immaginare quanta sofferenza per lui – vedere un Pollini impaziente che doveva attendere il via per attaccare l’op.10 n. 3 di Beethoven con l’irruenza congenita di chi non può procrastinare oltre l’atto che trasforma il pensiero in suono estratto dalle corde dello strumento.
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Un simile ritardo – per fortuna Pollini non era già presente sul palcoscenico – è occorso l’altra sera alla Scala, ma era generato da un comprensibile pasticcio dovuto al riciclo dei posti che erano stati assegnati mesi fa per il recital annullato dal pianista a causa di gravi motivi di salute. A questo inconveniente fastidioso (e il Sovrintendente Pereira, vero esempio di manager che come si suol dire è sempre “sul pezzo”, si affannava perché tutto si risolvesse con il minimo disagio) si aggiungeva però quello molto più serio dei telefonini squillanti e soprattutto dei flash degli stessi, utilizzati senza rispetto alcuno per l’artista e per il resto del pubblico da spettatori maleducati che erano presenti in sala solamente per il lato più esteriore dell’evento. Lo stesso pubblico che si lanciava in applausi fuori posto che turbavano non poco la continuità della musica.
Nell’ottobre del 1972, a New York, una nutrita platea di giovani scoppiò in un applauso liberatorio sia dopo l’esecuzione dell’op. 10 n. 4 all’interno dei Dodici studi di Chopin, sia al termine del secondo movimento della Fantasia di Schumann (non me ne voglia Quirino Principe, ma io non riesco a dire “secondo tempo”, mi ricorda il vecchio cinema e l’omino che durante l’intervallo sbucava fuori dalla tenda portando a spalla l’espositore con le bomboniere di gelato) eseguita da un Pollini trentenne nel pieno delle sue capacità psico-fisiche. In quel caso l’applauso era frutto dell’ammirazione da parte di un uditorio che conosceva perfettamente quali difficoltà il pianista aveva appena sormontato, e con quale entusiasmo coinvolgente. L’altra sera si trattava di un applauso convenzionale che si è ripetuto tra prima e seconda parte dell’op. 17 rompendo l’incanto del silenzio che chiude gli ultimi accordi.
Il programma scelto da Pollini non rappresentava una novità per chi lo segue da sempre. L’Allegro op. 8 di Schumann scelto come punto di ingresso e come preludio alla Fantasia è il tipico caso di una pagina molto interessante e sperimentale, che rivela tutte le proprie potenzialità solamente grazie all’intervento di un grande artista in grado di comunicarne gli aspetti più nascosti. Pochissimo considerata dai colleghi, l’opera 8 venne presentata da Pollini almeno a partire dal Festival di Salisburgo del 1986, poi ripetuta anche alla Scala nel febbraio 1999 e finalmente consegnata al disco tre anni più tardi. L’incisione in studio è per Pollini sempre l’ultimo atto di un progetto che si svolge in sala a diretto contatto con il pubblico, esempio di onestà intellettuale che ha pochissimi paragoni e prova inconfutabile della sua preparazione che non ha bisogno certo di artifici di montaggio a posteriori. L’esecuzione della Fantasia era sempre in linea con le premesse ideologiche che sono alla base del pensiero di Pollini, per la comprensione del quale a volte è necessario da parte dell’ascoltatore operare un cambiamento di coordinate, come si fa ad esempio in matematica e fisica quando si vuole rendere più comprensibile e agevolmente trattabile una funzione. Il pianista milanese, come è successo in parte a molti colleghi della sua generazione, non ha mai nascosto il suo scarso interesse per il “bel suono” e per un fraseggio che affonda le radici nella sensibilità romantica o nella “teoria degli affetti” e se ha comunque dichiarato apertamente il suo apprezzamento per i grandi pianisti del passato si è sentito in dovere di sottolineare di questi ultimi la forte personalità, e quindi la propensione all’arbitrio.
Spersonalizzazione del fraseggio, rifiuto di tutto quanto non è direttamente scritto sullo spartito e di qualsiasi elemento che possa anche solo lontanamente far pensare al carattere ludico della musica sono stati sempre alla base di un pianismo fin troppo lucido, che non a caso ha trovato nel tempo non pochi detrattori tra i commentatori professionisti. Un pianismo che, pur generato da una indiscutibile lucidità intellettuale, trovava certamente un suo punto di forza nella meccanica infallibile, nella sicurezza leggendaria, nella memoria assoluta, tutti parametri che l’avanzare dell’età mette ovviamente a dura prova. Invecchiare è un cimento, una sfida, per ogni essere umano ma in campo artistico, fino a qualche decennio fa, avevamo avuto la fortuna di ascoltare personalità capaci di adattarsi a questo inevitabile processo scoprendo nuovi mezzi di comunicazione che rivelavano quasi sempre verità e bellezze straordinarie. Della generazione di Pollini, solamente Radu Lupu è stato capace di sfruttare al meglio l’affievolimento delle capacità puramente meccaniche per spostare l’attenzione sul fraseggio, sul suono, sempre all’interno di una visione del tutto in linea con il significato e l’integrità dei testi affrontati. Alfred Brendel, di qualche anno più anziano, ha scelto la via del ritiro, come più frequentemente hanno fatto in passato certi grandi cantanti. Martha Argerich ha avuto la fortuna di conservare una manualità impressionante che le consente addirittura di raggiungere traguardi superiori a quelli giovanili, quando l’esuberanza tecnica era fin troppo esibita in dosi massicce, portandola a eccedere soprattutto nella velocità.
Là dove Pollini riesce tuttora a emulare i risultati dei suoi anni d’oro è nel repertorio chopiniano, che ha la capacità sia di adattarsi perfettamente alle sue specificità pianistiche che di operare una sorta di contenimento di una urgenza espressiva che tende ad anticipare i tempi e a non dare respiro al fraseggio. Anche qui si è percepita comunque la preoccupazione di rispettare le performances di un tempo, nella scansione irrequieta dei Notturni e della prima Ballata concessa come bis. La Barcarola è stata rivissuta in certi particolari come se fosse stata una pagina debussiana. Perfetti sotto ogni riguardo la Polonaise-Fantasie e il terzo Scherzo, che sembrano appartenere oramai al patrimonio genetico dell’artista.
(Teatro alla Scala, 16 Novembre 2015)
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