Il capolavoro viennese del 1719 torna in forma semiscenica al Theater an der Wien. Esperta direzione di Jacobs, compagnia di canto dominata da Degout e dalle donne
di Francesco Lora foto © Thibault Stipal
FRANCESCO BARTOLOMEO CONTI fu tiorbista a ruolo e compositore di grido alla corte imperiale di Carlo VI d’Asburgo: un contesto nel quale lavoravano Fux e Caldara, Zeno e Metastasio, alle dipendenze di un sovrano musicofilo, capace egli stesso di comporre poché figlio di Leopoldo I, autore raffinatissimo di musica e raro intenditore nella stessa materia. Grazie a un’edizione in facsimile, in particolare un dramma per musica di Conti testimonia oggi le caratteristiche del teatro d’opera viennese nell’età di Händel e Vivaldi, nonché la ricchezza di risorse di questo compositore oggi trascurato. Si tratta del Don Chisciotte in Sierra Morena, colossale lavoro in cinque atti (Vienna, carnevale 1719): libretto di Zeno e Pariati ispirato alla prima stesura del capolavoro di Cervantes; balletti alla francese al termine degli atti dispari e scene buffe a mo’ di intermezzi al termine di quelli pari; estesi recitativi colmi d’azione scenica e ironia drammaturgica, e arie caratterizzate dalla guizzante imprevedibilità melodica e dal grazioso pragmatismo veneziano.
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Da oltre vent’anni a questa parte, l’interprete di riferimento del Don Chisciotte è René Jacobs: a lui si devono tutte le esecuzioni che ne hanno segnata la rivalutazione, da quelle di Innsbruck 1992 a quelle di Beaune e Innsbruck 2005, a quelle di Amsterdam e Bruxelles 2010. Tre nuove esecuzioni in forma di concerto – come già quelle di Beaune e Bruxelles – sono ora in corso al Theater an der Wien di Vienna e alle Philharmonie di Parigi e Colonia (15, 17 e 25 novembre, rispettivamente; qui si dà conto della “prima” viennese). Dal 2005 a oggi – ossia da quando l’opera è stata riproposta senza tagli drastici, già presente chi ora torna a recensire – i parametri della lettura di Jacobs non sono mutati nella sostanza: interprete acuto, brillante ed entusiasta, egli è tuttalpiù passato dal curioso rigore dell’indagine al placido dispiego del gioco; vero maestro della microstrumentazione – peccato mortale in mano ad altri: la filologia non lo avalla – osa variare a ogni passo organico e fraseggio sfidando i confini del testo ma senza uscire da una sua attenta esegesi.
Ogni ritorno di Jacobs al Don Chisciotte porta tuttavia novità vistose nella scelta degli interpreti soggetti alla sua concertazione. L’Akademie für Alte Musik di Berlino, fedele seguace nel 2005 e nel 2010, ha ora lasciato il posto alla B’Rock Orchestra di Gand, un organismo ancor più ricco di suono e sollecito di gesti. Soprattutto, a ogni nuova produzione la compagnia di canto è stata rinnovata, con rare riconferme: ciò dimostra la volontà di mettere alla prova la bontà della lettura ripartendo da zero, confrontandosi con artisti diversi e presentando una rosa di sfumature inedita o riesaminata. Al Theater an der Wien si aggiunge, tacitamente, il talento dello Jacobs capocomico: venduto come esecuzione in forma di concerto, lo spettacolo vanta in verità una mise en espace pari a una regìa fatta e finita, dove i cantanti recitano a memoria e con atletica prestanza, in abiti da concerto oculatamente scelti o veri e propri costumi teatrali, e dove i luoghi scenici sono definiti dalla disposizione e dall’interazione dei professori d’orchestra.
La compagnia di canto ribadisce anzitutto un esempio da seguire. La parte di Don Chisciotte fu composta per Francesco Borosini, cantante celebre la cui tessitura andava dal Sol1 al Sol3, creatore anche della parte di Baiazet nel Tamerlano di Händel: ufficialmente tenore, come molti suoi coevi compagni di corda egli era in realtà un baritono versato nel registro acuto. Invitare esangui tenorini d’impostazione anglosassone a rilevare le parti di Borosini, come di norma avviene nel caso händeliano, è spettacolosa papera che rivela l’imperizia delle direzioni artistiche. Jacobs non vi è cascato: come nel 2005 e ad Amsterdam s’è avvalso di Nicolas Rivenq, così a Bruxelles e ora ha convocato un baritono; un eccezionale baritono: Stéphane Degout sfolgora per ampia risonanza, lucido smalto, timbro omogeneo, acuti insolenti, porgere d’inusitata varietà e intelligenza; ha un solo difetto, da emendare d’impero e presto: una fonetica italiana sbrogliata a fatica, ceppo al piede di una duttilità d’emissione e di un talento attoriale altrimenti rimarchevoli.
La naturalizzazione italiana, nello stile e nella parola, si ammira invece nella serie delle tre donne. Anett Fritsch è una Dorotea che sa trascolorare dal patetico, vero o fittizio, alla burla più disinibita, senza mai perdere di vista il senso della misura e la grammatica del canto. Sophie Karthäuser è una Lucinda giustamente più lirica, uniforme e stilizzata, memore delle buone e caparbie maniere imparate alla Scala con Riccardo Muti. Angelique Noldus è una Maritorne esatta sotto il profilo canoro, benché forse troppo contenuta e signorile nel ruolo della gitana turbolenta. Manco a dirlo, il miglior patrimonio vocale femminile è però quello di Giulia Semenzato nella parte en travesti di Ordogno: il vantaggio le è garantito dal semplice fatto di essere italiana all’anagrafe nonché per gusto, tecnica e naturalezza; quello che per le altre è un punto d’arrivo conseguito con lo studio, per lei è un punto di partenza ovvio e divertito, e le giova sia sul versante virtuosistico, dominato con vivacità, sia su quello attoriale, dominato con magistrale aderenza tra gesto e accento, parola e musica.
Non sorprende che in uno spettacolo diretto da Jacobs, già controtenore, tutte le parti virili notate in chiave di Contralto siano assegnate a falsettisti. I tre casi qui annoverati attestano tre differenti vie naturali e tecniche. Lawrence Zazzo, come Cardenio, è un migliore tra i peggiori: mostra cioè buoni volume, agilità ed estensione benché esca dalla scuola anglo-americana, adatta all’uso da cappella britannico ma non a evocare il mito dei castrati; nel 2005 l’ancor giovanissimo Franco Fagioli, oggi eroe della contrapposta scuola latina, era già altra e indimenticabile cosa. Christophe Dumaux, come Fernando, è il caso intermedio di un controtenore educato all’inglese ma via via interessato a cercare una più penetrante ‘punta’ del suono, una più spericolata articolazione delle semicrome, il pur non facile arrivo a un modello più calzante e oggi alla moda. A parte va considerato l’intramontabile caratterista Dominique Visse nella parte-cameo di Rigo: vulcanica caricatura vivente, per tale va preso e riverito, al di fuori di disamine sociologiche.
Recuperato dal 2005, il modesto tenore Johannes Chum reca mezzi vocali impoveriti, presenza scenica timida e generale inadeguatezza a una produzione così ricca di motivazione individuale. Basso buffo esente da inopportuni eccessi pagliacceschi e al contrario incline a simpatiche pose filosofiche, Marcos Fink è invece un Sancio Pansa capace di riempire la scena con poco sforzo e molta sagacia. Spiace solo che il suo arrivo abbia relegato alla piccola parte di Mendo il non meno valido Sancio del 2005, l’arguto Fulvio Bettini. Recezione di un’opera rara nella città che la tenne a battesimo quasi trecento anni fa: teatro affollatissimo di pubblico d’ogni età, applausi dopo ogni aria e ovazioni interminabili alla fine, stupore nel constatare quanti capolavori esistano e siano in attesa di riscoperta. Plauso ultimo, dunque, al Theater an der Wien: in una città traboccante di musica ma poco attenta al repertorio precedente a Gluck, da dieci anni a questa parte soprattutto esso ha formato un nuovo pubblico sitibondo di Sei e Settecento.
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