L’interprete russo apre la serie dei concerti dedicati ai grandi pianisti alla Società del Quartetto
di Luca Chierici foto © Harald Hoffmann
PER IL SUO RITORNO ALLA SOCIETÀ DEL QUARTETTO DI MILANO, che inaugurava un prestigioso ciclo dedicato alla musica pianistica, Mikhail Pletnev ha scelto un programma che sulla carta appariva molto interessante anche senza tradire un esplicito indirizzo programmatico. Nella prima parte (Bach-Liszt e Grieg) si notavano più le affinità tonali di tre pezzi in minore, nella seconda un omaggio a Mozart che se vogliamo poteva essere in parte collegato al nome di Grieg: il musicista norvegese aveva infatti trascritto per due pianoforti due delle tre Sonate mozartiane originali presentate da Pletnev, la KV 457 e la KV 533.
Diciamo subito che il recital si è svolto all’insegna di una cupezza di toni quale raramente avevamo ascoltato in concerto, nemmeno ai tempi del più involuto Michelangeli. Complice anche un pianoforte Kawai scelto da Pletnev, che in altre occasioni aveva assecondato alla perfezione le intenzioni del pianista. L’altra sera il Kawai sembrava sordo, offuscato e quel tipo di suono ha finito per condizionare tutto il concerto, sia nell’atteggiamento del solista, che ci è sembrato come stanco e poco incline a sopportare il peso di un recital così lungo, sia per la scelta di pagine che — soprattutto nella prima parte — sembravano fatte apposta (o meglio interpretate apposta) per gettare l’ascoltatore in uno stato di depressione senza via d’uscita.
Dalle prime quartine del Preludio e Fuga in la minore (BWV 543) di Bach trascritto da Liszt si è intanto capito come Pletnev intendesse interpretare una pagina che egli ha voluto almeno post-datare come se il trascrittore fosse stato Ferruccio Busoni: accenti irregolari, tempi assai variabili, pedale di risonanza a tutto spiano immergevano il Preludio in una nebbia di sonorità che, per quanto parzialmente suggestive, proiettavano il discorso verso esiti che il buon Giovanni Sebastiano non avrebbe mai potuto immaginare. Dalle brume non si è usciti nel momento in cui Pletnev ha affrontato due consistenti lavori di Grieg, la Sonata op. 7 e la Ballata op. 24. Non era la prima volta che ascoltavamo Pletnev in Grieg, ma il pianista russo aveva presentato in concerto solamente il Grieg più tradizionale di qualche Pezzo lirico. La Sonata op. 7 è composizione giovanile nella quale il musicista tenta di accomodare i ritmi e le melodie della musica popolare norvegese all’interno di uno schema formale classico. Che ci riesca o meno è questione che non è il caso di approfondire. Fatto sta che l’onesta e accattivante vena musicale che innerva i quattro movimenti della Sonata viene solitamente presentata per quello che è, senza sottolineare un clima meditativo che è piuttosto estraneo a queste pagine. Così l’abbiamo ascoltata da quei pochi grandi pianisti che l’avevano in repertorio (pensiamo soprattutto a Shura Cherkassky e a Nikita Magaloff).
Pletnev — a volte sembra che egli voglia andare per forza controcorrente, cosa che non risulta essere in nessun caso un buon motivo di condotta — ha di nuovo ambientato questa musica in un paesaggio freddo e nebbioso, immergendo gli innocenti vezzi nazional-popolari in una improbabile atmosfera crepuscolare. Mettendo a dura prova l’attenzione degli ascoltatori, il pianista russo ha proseguito con la Ballata in sol minore dello stesso Grieg, elemento che non sarebbe privo di interesse ma che ha da sempre costituito un osso duro anche per quei pochi pianisti che hanno scelto di inserire l’op. 24 nel proprio repertorio. La Ballata aveva sì stuzzicato la curiosità di alcuni esponenti della vecchia scuola come Leopold Godowsky o Jorge Bolet e in tempi più vicini a noi Olli Mustonen (il caso di Leif Ove Andsnes, norvegese d.o.c. non fa ovviamente testo) ma in tutti i casi non riesce mai a convincere del tutto per la presenza di elementi ripetitivi e la scarsa differenziazione delle parti. Tanto più se si evita, come ha fatto Pletnev al contrario degli interpreti sopra citati, di puntare su quegli elementi che permettono di ravvivare il discorso, sia nel passaggio alla tonalità maggiore che nel ricorso a spunti virtuosistici che innalzano la scrittura pianistica di Grieg verso livelli tipici dell’universo lisztiano.
Sempre seguendo un understatement emotivo ai limiti del patologico, Pletnev ha proseguito l’impaginazione del programma con un Mozart anch’esso imprevedibile, almeno per ciò che riguarda la Sonata in re maggiore KV 311, tradizionalmente interpretata da tutti i grandi pianisti come esempio dell’estrema vitalità e vivacità del gioco mozartiano e qui ridotta a un soporifero esercizio di travisamento stilistico. Ma anche la demoniaca Sonata in do minore appariva molto più addomesticata del solito e recepibile in quanto tale solamente grazie a quello che può essere l’interesse per una interpretazione “di nicchia”. Last but not least Pletnev ha finalmente fatto centro nell’ultima sonata in programma, dove il pianista ha finalmente rispettato parte dei ritornelli che prima erano stati accuratamente evitati. Errore blu, giacché nemmeno l’ultimo Horowitz, cui Pletnev chiaramente si ispira, era venuto meno a un comportamento che oggi non è messo in discussione più da nessuno. La Sonata KV 533, abbinata a quel capolavoro di miniaturizzazione che è il Rondò KV 494, non perdeva di smalto se immersa ancora in una luce soffusa e Pletnev è riuscito a riproporla con esiti molto significativi. Pure provato dalla serata, il pianista ha concesso un bis che nulla aveva a che fare almeno con il Mozart della seconda parte, il notissimo Liebstraum n. 3 di Liszt che da estremamente zuccheroso come lo propone ai giorni nostri Lang Lang diventava forse esageratamente casto e stringato.