La bacchetta di Juraj Valčuha regala una magistrale esecuzione torinese della sinfonia, sorta di lascito spirituale del compositore
di Attilio Piovano
OGNI VOLTA CHE SI RIASCOLTA live la Nona Sinfonia di Mahler, sì insomma in sala da concerto – è accaduto le sere di giovedì 28 e venerdì 29 gennaio, a Torino in Auditorium ‘Toscanini’ con l’OSNRai in grandissima forma e un Valčuha in vero stato di grazia – ecco che emozioni, ricordi, immagini, suggestioni e altro ancora riaffiorano come un flusso inarrestabile nella nostra mente. La Nona, si sa, è un singolarissimo macrocosmo, un sismografo dell’anima, una sintesi poderosa e toccante dell’intero percorso sinfonico del musicista boemo ormai giunto in prossimità del capolinea e, al tempo stesso, un unicum rispetto alle antecedenti altre otto Sinfonie, dalle quali si distacca, pur tuttavia costituendone l’inevitabile prosecuzione e approdo, per uno di quei paradossi che solo nell’arte è possibile riscontrare. Il presagio della morte, forse addirittura la certezza pressoché assoluta della fine, non a caso, costituiscono elemento immanente nella Nona stessa: che pure non è solo meditazione, non è solo un monumentum all’interiorità, sorta di lascito spirituale, affresco sonoro dall’esplicito significato di ultima verba.
Tutto questo, certo è palpabile, soprattutto nei due grandi movimenti lenti, lo sterminato Andante iniziale che prende le mosse da una semplice cellula da cui tutto germina e più ancora il commovente Adagio conclusivo, un commiato dal mondo, un distaccarsi dalle cose terrene e materiali; e ogni volta che lo si riascolta impone riflessioni sul senso della vita e della morte, si interroga e ci interroga ponendoci come sull’orlo dell’abisso, ma senza traumi, senza la drammaticità di quegli schianti e certo collassare della materia che tracimavano invece nelle antecedenti Sinfonie. Qui (quasi) tutto pare come purificato, come vagliato, come saggiato al fuoco di una interiorità che ormai non brucia più di passioni e ardenti accensioni, consapevole dell’umana caducità dell’essere («sunt rerum lacrimae», per dirla con Virgilio).
Pur tuttavia ai due vasti tempi lenti corrisponde il blocco dei due centrali e allora l’ironia graffiante e acidula del secondo, quel Ländler impregnato di arguzia e ironia, più ancora l’apoteosi di quel gusto per il grottesco che di Mahler è una vera firma; poi il magistrale Rondò-Burlesca alimentato a un vitalismo ritmico che assurge al significato di disperato (e disperante) appello alla vita, per l’appunto e, nel contempo, su un piano più squisitamente tecnico-musicale, informato a un solido, robusto contrappunto che ogni volta lascia attoniti per la maestria tecnica disvelata.
Per porre in luce tutto ciò e tenere saldamente insieme con coerente lucidità la dissimile Stimmung dei quattro tempi occorrono una grande orchestra e un direttore maturo oltre che colto. Se l’OSNRai ha superato se stessa quanto a intensità interpretativa fornendo una prova altissima, grazie al livello eccellente delle sue prime parti, in tutte le sezioni e grazie a un affiatamento a dir poco strepitoso, Valčuha ha saputo guidarla con una perizia e una partecipazione davvero rare. La sua precisione tecnica è ammirevole e l’orchestra risponde docile ai suoi gesti nitidi come una macchina umana perfettamente oliata.
Che si sarebbe trattato di una grande indimenticabile esecuzione lo si è compreso fin dalle misure iniziali, con quei suoni estenuati, cameristici, quel clima luttuoso, ma anche quella sensualità di fondo che allignano nell’Andante talora collidendo, come un guardare disperato alla vita, un aggrapparsi strenuo all’esistere e nel contempo una consapevole affermazione dell’inesorabile andare incontro alla fine. Il vero clou, dopo la prova di bravura del già citato Rondò, è stato nel conclusivo Adagio (in questi casi seguire l’intera esecuzione con la partitura sotto agli occhi è una vera gioia dello spirito e, più ancora, grantisce la consapevolezza di come ogni nota sia stata pesata, ogni fraseggio e ogni minimo segno dinamico rispettati, sia da Valčuha sia dai professori d’orchestra). Quanta intensità espressiva nella pasta degli archi, quanta bellezza nelle trame delicate dei fiati e quanta cura nei dettagli, senza mai perdere di vista la curva melodico-armonica, l’ampio arco di indicibile bellezza di questo movimento che si chiude nel pressoché inudibile sussurro delle ultime misure. E all’ascolto hai la consapevolezza che l’armonia tonale di Mahler sia stata dilatata all’inverosimile, al limite della rottura, entro un clima che di espressionista ha tutte le caratteristiche, senza possederne il colore livido.
E dopo quell’ultima triade di re bemolle degli archi ti rendi conto che solo il silenzio è possibile. Il silenzio appunto. E allora peccato davvero che i soliti due o tre imbecilli debbano scoppiare in fragorosi applausi quando ancora direttore, orchestrali e il 99% del pubblico trattengono il respiro. Possibile che non si riesca a prolungare di 30 o perché no anche 50, per strafare 90 secondi quel silenzio inaudito? Possibile che sia così urgente mostrare agli altri che ‘tu’ sei un intenditore, sei un habitué e allora hai ‘capito’ prima del volgo che è finita? Ecco, verrebbe voglia di prenderli da parte quei due o tre imbecilli, ma invece di cedere alla rabbia (come istintivamente si vorrebbe) ti abbandoni invece volentieri alla commozione; e dopo, come è giusto, c’è spazio per gli applausi intensi e copiosi. Al termine di una serata indimenticabile: davvero. Grande Sinfonica Nazionale Rai, grande Valčuha e grande, sommo Gustav.
Caro Lettore, se apprezzi Il Corriere Musicale iscriviti al Circolo dei lettori, area premium dedicata ai più appassionati: sosterrai l’attività di questo sito permettendo anche la gratuità di articoli come questo. Sostieni le nuove realtà. Non riceviamo finanziamenti pubblici. Registrati