La produzione svedese e la briosa conduzione di Speranza Scappucci conquistano il pubblico con la messinscena dell’opera rossiniana ambientata a Cinecittà
di Attilio Piovano
Una nuova produzione dell’inossidabile Cenerentola è andata in scena al Regio di Torino martedì 15 marzo 2016 (ci resta per complessive otto recite con doppio cast). L’allestimento è a cura del Regio, la produzione originale (novità per l’Italia) proviene da Malmö Opera. Sul podio Speranza Scappucci, una massa di capelli fulvi, sguardo penetrante, modi affabili e, nel contempo, molta grinta e determinatezza. Una carriera tutta in ascesa. Solidi studi, un debutto internazionale quattro anni or sono a Yale, in Così fan tutte, a breve sarà impegnata al R.O.F., ha diretto la Royal Liverpool Philharmonic ed ha mietuto successi a Washington dopo aver lavorato con direttori del calibro di Muti, Ozawa, Mehta, Levine; prossimamente debutterà in Bohème a Los Angeles.
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Ha compiuto un egregio lavoro in sede di concertazione, potendo contare su un’orchestra in buona forma (reduce da un’applaudita tournée ad Hong Kong), sul coro maschile come sempre allineato su elevati standard (istruito dal puntuale e scrupoloso Claudio Fenoglio) e, soprattutto, su un ottimo cast decisamente affiatato. Dirige con gesto nitido ed efficace, niente inutili smancerie, molta chiarezza, brio, verve e ritmi pimpanti, dove occorre (vale a dire in quattro quinti della scorrevole partitura), ma anche indugi opportuni e sottolineature sentimentali, un’allure larmoyante, ora ‘sul serio’ (il refrain patetico «Una volta c’era un re», quasi monologo solipsistico di Cenerentola, più volte rilanciato dalla protagonista), ora ‘per celia’: è il caso in cui Don Magnifico con enfatico e menzognero patetismo, ad Alidoro, che viene a reclamare la terza figlia («Qui nel mio codice delle zitelle») giura e spergiura che Angelina è morta, con effetto comico, o ancora nella scena del ‘sogno’ «Miei rampolli femminini» laddove, con esilarante (e patetica) comicità interpreta i ‘segni’ della sua stessa visione («Ma quell’asino son io»). Speranza Scappucci fraseggia con gusto, lascia respirare i cantanti, imprime tempi adeguati, tiene in pugno saldamente orchestra e palcoscenico (e non è cosa da poco) e, dulcis in fundo, forte di anni di attività di maestro sostituto, ovvero di accompagnatrice di cantanti, disimpegna ella stessa i recitativi al fortepiano: con un gusto specialissimo, aggiungendo abbellimenti, volatine, arguzie, impertinenze, interpunzioni umoristiche che danno pigmento ai recitativi stessi.
Molti i tratti affrontati con impareggiabile brio, infondendovi quella frenesia ritmica che di Rossini, si sa, è la vera e propria inconfondibile firma, una sorta di ineludibile must. E allora già in apertura (con la Sinfonia – che riprende quella della antecedente Gazzetta – eseguita a sipario aperto e il dimenarsi di fin troppe comparse secondo i dettami della regia di cui diremo) soprattutto nei vari e policromi concertati (dunque non solo nel finale atto primo, che riprende il tema della Sinfonia e il suo irresistibile crescendo, e nel finale ultimo, bensì in vari altri punti focali della spassosa partitura).
Le voci: tra tutti giganteggia per autorevolezza vocale e scenica Carlo Lepore nei panni di Don Magnifico (insuperabile la sua ‘tirata comica’, nella scena X, atto I, l’aria, «Noi Don Magnifico/questo in maiuscole» dopo essere stato nominato cantiniere da Dandini). Molto spasso (non solo sul piano vocale) nel celebre duetto «Un segreto d’importanza». Riesce a dar corpo al personaggio con levità e ironia, senza inutili spacconate, insomma una grande performance la sua. Bene Paolo Bordogna, un Dandini credibile e convincente sotto tutti i punti di vista e pazienza per quel suo vibrato talora un poco sopra le righe, emerso nella celebre «Come un’ape ne’ giorni d’aprile». Molto apprezzato dal pubblico il Don Ramiro del tenore Antonino Siragusa, vero beniamino delle platee, con i suoi squilli aitanti e la sua vocalità agile e scorrevole (qualche piccola ineleganza qua e là e qualche eccesso di gigioneria vocale come tutti i tenori, di quel livello si sa). Bene Alidoro interpretato dal basso Roberto Tagliavini (dal quale si sarebbe voluto appena un poco più di suono e di corposità in certi passi). Sul versante femminile molto apprezzata la Cenerentola/Angelina di Chiara Amarù, nei passi topici della sua parte, in bilico tra reminiscenze da Buona figliola, remissività e consapevole astuzia, giù giù sino al virtuosismo di coloratura dell’ultima scena affrontato con accettabile sicurezza (la cabaletta «Nacqui all’affanno e al pianto… non più mesta accanto al fuoco»). Bene, poi, più sul versante attoriale, le sorellastre Clorinda e Tisbe di Giuliana Gianfaldoni e Loriana Castellano (talora vocalmente un poco opache e con voce piccola).
Ed ora scene e costumi (firmate da Madeleyne Boyd) e la regìa di Alessandro Talevi che, per la loro specificità, meritano un discorso articolato. Scoprire all’arrivo in teatro che nella locandina con la sinossi e le informazioni di rito c’è anche una lunga nota scritta del regista crea sempre un certo sconcerto e qualche apprensione: quando il regista sente l’esigenza di ‘spiegare’ per iscritto i suoi intenti è perlomeno legittimo inarcare le sopracciglia ed aguzzare l’attenzione. La regìa infatti dev’essere chiara de visu. Se occorre chiosarla e lardellarla di dichiarazioni di intenti (tanto più se addirittura vengono citati Bettelheim e con nonchalance L’isola dei famosi e X-Factor) di solito promette cose lambiccate. E invece in questo caso tutto è comprensibile alla visione, magari non sempre condivisibile (perplessità tra alcuni colleghi serpeggiavano nell’intervallo e a fine serata, laddove il pubblico ha decretato un successo strepitoso all’intera produzione, apprezzata sia sul piano musicale, giustamente e legittimamente, sia su quello scenico-registico).
L’idea portante è un set cinematografico anni ’50 a Cinecittà, e allora i provini con le smorfiose attricette, davanti a un regista azzurro vestito (il filosofo Alidoro), quindi il fermo immagine sulla prescelta rilanciata sullo schermo (tutto questo durante la Sinfonia, qualcuno sosteneva che disturbi, mentre invece ci può stare). Anche perché la frenetica motricità della partitura va di pari passo col dimenarsi di comparse e fotografi di scena: una pletora di personaggi che Talevi, giovane e talentuoso regista, muove con passabile coerenza.
L’abitazione male in arnese del decaduto Don Magnifico è in realtà una squallida dimora di periferia: al primo piano un tinello anni ’50 con cucina a gas ‘economica’, divano in ‘vera finta pelle’, muri sbrecciati, un tetto piano con bicicletta e una selva di antenne televisive. Sulla destra della scena in esterno un casco da pettinatrice, biancheria con stendino a vista, un bidone della spazzatura e un prefabbricato come quelli dei cantieri in lamiere che ruotando diventerà il chiosco-banco panini (stile ‘porcari’ davanti allo stadio) del set di Cinecittà. Scene pur gradevoli, nel loro vistoso ed esibito kitsch, ma alla fine ipertrofiche, come ipertrofica la regìa che ha voluto inserire un frammento di Colosseo, uno scimmione, un prelato, comparse ovunque, centurioni romani e le sorellastre trasformate in schiave muovendo sì bene il tutto, ma con bulimico desiderio di mostrare troppo. E allora Dandini e Ramiro che diventano Console romano e gladiatore, come all’epoca dei film storici prodotti a Cinecittà (da Ben-Hur a Cleopatra e le comparse che con spregiudicata leggerezza talora indossavano addirittura un orologio patacca).
Un’annotazione da appassionato di auto storiche e motocicli d’antan: lo scooter poteva anche starci, ma allora ci voleva una Vespa originale anni ’50 (come in Vacanze romane) e non un volgare e banale scooter in vetro-resina amaranto dei giorni nostri, una delle più vistose cadute di gusto. Ma molte altre se ne potrebbero inventariare: per dire, far vomitare una delle pur perfide sorellastre dalla ringhiera, quando si rende conto di non essere la prescelta, francamente ci è parso un po’ eccessivo o quantomeno di cattivo gusto, per l’appunto. Difficile poi da comprendere il cambio di scena finale, e allora gli invitati che paiono al ballo di Violetta Valery e Flora, e una Cenerentola tutta viola che si ‘esibisce’ davanti ad un podio come quelli dei candidati americani (quasi Cenerentola for President) e in realtà siamo alla premiazione stile notte degli Oscar (o qualcosa del genere). Impossibile descrivere tutti i dettagli e tutti i mille rivoli di uno spettacolo che, di fatto, ha divertito e convinto, scorrendo via in maniera sciolta, pur con le riserve di cui sopra. Spettacolo del quale conserveremo a lungo un assai gradito ricordo, soprattutto per il valore musicale del cast, la buona tenuta dell’orchestra e la direzione di alto livello.
Un ultimo dettaglio. Ce ne ricorderemo anche per la tempestiva e provvidenziale performance di un vigile del fuoco che, con teatrale aplomb, è intervenuto a sedare un principio di incendio sul tetto piano dell’abitazione delle sorellastre, dopo i pirotecnici ‘effetti’ durante il temporale. Tutti pensavano ad un ennesimo effetto, ma le fiamme, pur circoscritte, non cessavano. Qualche apprensione, poi il solerte pompiere e un colpo di estintore comme il faut. In molti, se non fosse per l’odore di bruciaticcio in sala, manco se ne sarebbero accorti e giuravano che era perfettamente in sintonia con la regia ipertrofica, anzi era del tutto voluto. Avremmo desiderato applaudire in scena il vigile stesso, ma non è comparso e così abbiamo ammiccato all’intera squadra, raggiungendo il retropalco e i camerini per i saluti di rito del post spettacolo.
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