Concerto molto applaudito del pianista russo, occasione per riflettere sul suo approccio al repertorio romantico | Bonus: 3 minuti di registrazione del concerto
di Luca Chierici
Come nel caso di Zimerman, anche per Grigory Sokolov si è creata nel tempo una sorta di venerazione per un mito vivente del pianoforte, alimentata oramai da quasi trent’anni di presenza costante sui palcoscenici italiani, se si eccettua una più antica sortita con i complessi RAI di Torino nel lontano 1967. E nella sola Milano gli appuntamenti sono arrivati ad essere trentasei, coma ha puntualizzato Antonio Mormone, presidente della Società dei Concerti cui va dato il merito di essersi assicurata la fedele presenza del grande pianista, in esclusiva, così come era stato fatto per Evgenji Kissin.
Nel corso della vita di ogni artista è logico che vi possano essere dei mutamenti di rotta e avevamo osservato un momento di crisi interiore in Sokolov già durante le sue ultime comparse milanesi. Nell’attuale approccio di Sokolov alla tastiera si è notata la radicalizzazione di un atteggiamento che in passato era presente solamente in minima parte. Sokolov si era presentato fin dai primi anni come interprete di assoluto primo piano nel campo della musica barocca eseguita sul moderno pianoforte da concerto: esemplari sono state le sue proposte di autori come Rameau, Couperin, Byrd e lo stesso Bach che egli propinava in dosi massicce a un pubblico per nulla abituato a recepire quel tipo di repertorio.
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E il grande pianista procedeva senza curarsi per nulla dell’impatto che potevano avere decine di minuti di trilli, gruppetti, e ogni diavoleria di abbellimenti sgranati con una manualità sorprendente e con una tecnica che prediligeva un tocco secco e staccato di fronte all’ascoltatore meravigliato e divertito. Pagine raramente ascoltate da pianisti del passato, come Cziffra, che ne porgevano solamente l’aspetto di un richiamo a un delizioso tempo che fu, popolato di trine e merletti, diventavano con Sokolov attuali e inquietanti nella loro scansione precisa e nella loro apparente cristallizzazione degli affetti. Quando il programma del concerto transitava verso il Romantico, il pianista un poco si trasformava e il suo modo di porgere teneva pur conto di tutta una tradizione secolare che privilegiava per quel repertorio l’esistenza di passaggi legati e una pur minima tendenza a “rubare”, ossia a seguire quelle percettibili deviazioni di scansione che assicurano l’esistenza di un senso compiuto a una frase musicale.
Nel concerto di mercoledì scorso (13 aprile 2016) Sokolov sembrava applicare una ferrea metronomicità e una inesorabile articolazione anche alla melodia infinita di Schumann, cosa che ha portato a una esecuzione rigidissima e poco seducente della Fantasia op.17, un capolavoro della letteratura romantica che da Sokolov non era mai stato affrontato, almeno durante la sua presenza italiana. Punti di vista? Può darsi. Ma quando ciò accade e quando la durata di esecuzione di un pezzo devia dalla media per una percentuale piuttosto rilevante (la Fantasia nelle mani di Sokolov ha totalizzato i 37 minuti, contro i 28 della Argerich, e i 32 di Richter, ad esempio) c’è sempre da chiedersi cosa stia accadendo.
Nella Fantasia, così come nella Arabeske che la precedeva, vi era una continua, implorante accentuazione delle melodie al registro acuto e medio, quasi una disperata richiesta di aiuto, una immedesimazione nel richiamo ideale che Robert rivolgeva a Clara. Forse questo è stato il senso ultimo della lettura di Sokolov, al di là del rispetto di una metrica più libera e di una retorica che pure sono necessarie nella resa di un fraseggio così appassionato. E forse solamente nel canto lancinante del finale dell’opera 18 il pianista riusciva a coniugare l’espressione del proprio sentimento, estendendola in maniera quasi patologica, con quella che di solito un interprete ispirato associa al particolare luogo schumanniano :
Mentre nelle ultime misure della Fantasia il richiamo diventava veramente un grido disperato:
La seconda parte di quella che doveva diventare una lunghissima serata è proseguita con i due notturni dell’op. 32 e con la Sonata op. 35 di Chopin. Molto belli i primi, con una inquietante definizione dell’interrogativo finale del primo notturno, mentre ancora una volta assai problematica era la Sonata, che si è prolungata per quasi trenta minuti, con una Marcia funebre trascinata all’inverosimile. E naturalmente è arrivata una buona carica di bis, tra i quali ben cinque tra i sei Momenti musicali di Franz Schubert. Sokolov sembra rifugiarsi in Schubert come se il musicista austriaco gli garantisse un modo di esprimere il proprio stato d’animo con una verità di accenti che viene dissimulata attraverso un linguaggio casto, privo degli eccessi che possono scuotere il mondo come è il caso di molte pagine romantiche di Chopin, Schumann o dello stesso Beethoven. E nei Momenti musicali il pianista ha evocato spettri bachiani (nel quarto) e sottolineato il mesto commiato nell’enigmatico numero conclusivo in la bemolle maggiore, concluso con una misteriosa modulazione che, senza citarlo espressamente, evoca nell’ascoltatore un pessimistico modo minore.
Enorme entusiasmo nel pubblico, e applausi a non finire.
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