In scena a Trento l’opera di Šostakovič tratta da un racconto di Gogol’: satira feroce della società zarista
di Cesare Galla
UN PICCOLO BUROCRATE superficiale e carrierista, un “assessore di collegio”, scopre una mattina di non avere più il naso. Ben presto si rende conto che la sua appendice ha assunto vita propria: gira vestito da “consigliere di Stato”, si fa notare in chiesa e forse per strada, cerca di fuggire all’estero. Diventa quasi un fenomeno mediatico, come si dice ora, che tanti cercano di vedere, senza in realtà riuscirci quasi mai. Apparentemente, qualcuno riesce a catturarlo e a restituirlo al suo legittimo proprietario, ma il naso non vuole più saperne di restare attaccato alla sua faccia e un medico suggerisce all’ormai disperato protagonista di lasciar perdere, di provare a fare qualche soldo vendendolo come reperto. Poi, all’improvviso come se n’era andato, un’altra mattina il naso torna al suo posto e l’assessore di collegio può riprendere a condurre la sua vita, meschino e frivolo come prima.
E soprattutto si afferma in maniera travolgente l’eclettismo stilistico di Šostakovič, che compone una tarsia musicale nella quale antico e moderno si sovrappongono e s’intersecano
Tra i racconti di Gogol’, grande scrittore russo dell’Ottocento, Il naso è uno dei più noti (insieme a Il cappotto): una satira feroce della società zarista, del suo conformismo e della sua la sua ristrettezza e superficialità. È a questo capolavoro del grottesco e dell’allusivo che si rivolse il giovane Šostakovič per la sua prima prova nel campo del teatro musicale, sul finire degli anni Venti. Ne uscì un capolavoro modernista fuori tempo massimo, se così si può dire, che a oltre ottant’anni di distanza (la prima si ebbe nel 1930) mantiene intatto il fascino della sua dirompente carica innovativa e si pone come uno dei documenti più alti e lancinanti (per quello che drammaticamente non poté essere) dell’arte rivoluzionaria russa prima che calasse il buio del formalismo e si affermasse la feroce oppressione stalinista.
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La critica sociale gogoliana aveva avuto qualche fortuna negli ambienti artistici della rivoluzione ma probabilmente era già considerata troppo “classica” e non abbastanza dalla parte del popolo quando Šostakovič mise mano a questa strabiliante partitura, una “sinfonia teatrale” (così la definì molto tempo dopo) che afferma perentoriamente il genio del compositore di Leningrado poco più che ventenne e la sua straordinaria capacità di aderire con vibrante originalità alle correnti più innovative delle avanguardie del suo Paese fra scena e letteratura (da Mejerchold a Majakovskij). Ne esce un’opera di futuristica forza cinetica, che al ritmo incalzante del racconto per rapidi quadri unisce una sorta di “montaggio” che culmina in una grande “scena doppia”, nella quale due coppie di personaggi agiscono in una sorta di surreale sincrono, in cui causa ed effetto delle loro azioni (la scrittura e la lettura di due lettere) si sviluppano in contemporaneo. E soprattutto si afferma in maniera travolgente l’eclettismo stilistico di Šostakovič, che compone una tarsia musicale nella quale antico e moderno si sovrappongono e s’intersecano, giustapponendo Canoni e Fughe a ritmi jazz o a musica d’intrattenimento, con scelta timbrica “eversiva” nel privilegio assegnato a percussioni e fiati; le storiche forme operistiche si diluiscono in un continuum ad alto tasso drammatico; le voci vengono “spremute” e spinte secondo una linea di canto che va dal parlato allitterante al falsetto grottesco, toccando tutti i gradi del declamato e del cantabile.
Paradossalmente, questa è un’opera da camera che richiede non di rado una piccola folla di interpreti e la sua rappresentazione è dunque sempre una sfida molto complessa. L’ha sostenuta molto bene la nuova stagione di Trento e Bolzano con la Fondazione dell’orchestra Haydn, intitolata “Opera 20-21” e disegnata dal suo direttore artistico Matthias Lošek avendo quest’anno come tema l’ironia lungo un arco di tempo che va dal Classicismo viennese all’attualità. Il Naso costituiva lo spettacolo di chiusura nel piccolo Teatro Sociale di Trento ed è stato accolto con grande favore da un pubblico alla prima non particolarmente numeroso. Coproduzione italiana e austro-ungarica (con Trento e Bolzano, la Neue Oper Wien, il centro artistico Müpa Budapest e il Cafè Budapest), lo spettacolo firmato da Matthias Oldag è basato su una scenografia essenziale e attualizzata (Frank Fellmann), con sfondi in stile installazione artistica contemporanea (a mo’ di quinte un largo pannello con il testo di un articolo sulla recente guerra in Ucraina) una griglia che sale e scende, oggetti impiegati spesso in chiave decorativa, costumi grotteschi e paradossali, ampio uso della pedana alle spalle dell’orchestra e della platea stessa, luci radenti ed eccessive. La chiave di lettura è il grottesco, condotto sul filo della caricatura e non senza attualizzazioni tematiche (il terrorismo) ma con sostanziale fedeltà alla vicenda e soprattutto allo spirito con cui Šostakovič costruì sul racconto di Gogol’ il proprio manifesto modernista, ben presto soffocato e per decenni ignorato.
Probabilmente pensato per spazi scenici non tradizionali, ma ben inserito anche in quelli ottocenteschi del Sociale, lo spettacolo si è valso della direzione musicale incisiva e molto vivace nei tempi e nelle dinamiche di Walter Kobéra, che ha messo in luce l’efficacia degli strumentisti dell’orchestra Haydn e segnatamente del folto manipolo dei percussionisti. Il foltissimo cast si è disimpegnato egregiamente dal punto di vista scenico, con paradossale accentuazioni di gesti, movimenti, pronunce. Vocalmente parlando, le cose più interessanti sono venute da Marco Di Sapia (il burocrate Kovalev), da Igor Bakan, il trucido barbiere Jakovlevic, da Georg Klimbacher, impegnato sia nel ruolo dell’impiegato di un giornale cui si rivolge il protagonista, che in quello dello spregevole medico che prova a vendergli il naso; positive le interpreti femminili, Tamara Gallo, Ethel Merhaut e Megan Kahts, meno efficaci il poliziotto di Pablo Cameselle e il Naso di Alexander Kaimbacher, messo a dura prova dall’ardua tessitura per lui disegnata da Sostakovic. Impeccabile l’apporto del Wiener Kammerchor.
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