Quest’anno il direttore indiano ha partecipato al Maggio Musicale Fiorentino con diversi concerti e nessuna opera. Nei suoi programmi molto Beethoven, letto secondo una prospettiva stilistica poderosa e figlia del suo tempo: una cifra di più ampio significato?
di Francesco Lora
Una recensione; o, per meglio dire, qualche conto di vita artistica, in senso biografico e istituzionale, intorno agli ottant’anni di Zubin Mehta e al suo ruolo nel Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. A sintetizzare il presente basterebbero le franche parole del sovrintendente, Francesco Bianchi: ammirazione e riconoscenza al direttore principale e onorario a vita, che negli ultimi trent’anni ha assestato orchestra e immagine a livello internazionale; consapevolezza, tuttavia, che il rilancio del teatro in tempo di equilibri difficili debba poggiare su spalle meno affaticate (Mehta dirige quasi tutte le sere, diviso tra molte e troppe città e scene) e più propositive (i suoi programmi rimestano in un repertorio vasto ma fisso e viepiù ristretto). Il cartellone del festival numero settantanove, nonché dell’appendice extrafestival, la dice lunga tra luci e ombre. Mentre il direttore indiano percorre mezzo mondo per festeggiare in concerti il compleanno a cifra tonda, la sua bacchetta non si è quest’anno alzata per condurre alcun titolo operistico nel corso del MMF. Nel 2015 si era ascoltato il suo Fidelio: nelle ultime settimane ancora Beethoven ha fatto la parte del leone, avendo Mehta scelto di inaugurare il festival col Concerto per pianoforte n. 5 e con la Sinfonia n. 9 (Opera di Firenze, 24 aprile), e di siglarlo poi con la Missa solemnis (stessa sala, 18 giugno).
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Ebbene: soprattutto nel concerto inaugurale Mehta presenta la musealizzazione atemporale del compositore e, in un certo senso, di sé stesso. Accompagna con poderosa asciuttezza l’esibizione alla tastiera di András Schiff, musicista con la solita eleganza enigmatica, superiore e beffarda, astratta e innocente assai più che virtuosa e ironica. Nella sinfonia presiede da solo la propria idea di Beethoven: disinteressato all’informazione storica, con o senza strumenti d’epoca, lo filtra non solo attraverso la visione tardottocentesca, ma anche attraverso la visione che il Novecento maturo ha avuto dell’ultimo Ottocento; l’incrostazione stilistica sull’incrostazione stilistica. Ne esce un Beethoven inturgidito all’inverosimile, impenetrabile nella pasta d’orchestra senza luce, aggravato nei tempi e nei timbri sino a deporre riflessi e impeto, e sino a confondere i caratteristici scatti d’improvvisa violenza – si pensi allo sviluppo nel primo movimento – in un discorso tutto roccioso, massiccio, uniforme. Si ha in tal modo non l’analisi del capolavoro, ma la sua ostensione oggettiva in atto di fede; è la reliquia presentata da un ministro al popolo, affinché in essa si veneri il santo a priori e vi si intravveda il monumento divino: non importa che il mistero sia reso intelligibile, bensì che impressioni per l’atto stesso di uscita dalla teca. Ma a Beethoven non basta l’adempimento di un rito.
L’occasione dà adito a vanti e impacci prevedibili nelle maestranze. L’orchestra del MMF è la solita macchina meravigliosa di metallo e possanza, e in ampia parte si configura come tale – va ribadito – grazie all’annosa dedizione di Mehta; fatica, però, come quasi ogni orchestra non germanica, a conservare la tensione della frase lungo tempi compiaciutamente dilatati; tra la prestanza tecnica si insinua presto, così, la stilla dell’acido lattico: lo sforzo imposto dal direttore non premia le attitudini della compagine. Il relativo coro si conferma invece padrone di tecnica anche nella prova estrema: la caleidoscopica somma di timbri e la sbalorditiva potenza di suono temono pochi confronti in Italia e nessuno all’estero. Decoroso appare il quartetto delle voci sole: il soprano Julianna Di Giacomo, il mezzosoprano Julia Rutigliano, il tenore Burkhard Fritz e il baritono-basso Tomasz Konieczny (autorevole, questi in particolare, nell’esordio della poesia schilleriana); è noto quali insidie tenda la scrittura vocale beethoveniana, poco amica del canto; meglio si dovrebbe tenere a mente quale errore sia cercare la soluzione nella scuola tedesca, più forte nel rigore dei dettami che nel genio delle risorse. Quanto detto torna perlopiù a valere nel caso del concerto con la Missa solemnis, composizione distante due soli numeri di catalogo dalla Nona ma assai differente negli strumenti tecnici e retorici.
Nelle parti dell’ordinarium missæ, più che nella sinfonia, si impongono lo splendore dell’orchestra e la baldanza del coro: ciò avviene a dispetto del passo staccato da Mehta, pervicacemente ampio, lento, come se ciascun contrappunto dovesse allungare il riverbero nello spazio. Ancora una volta, una scrittura frastagliata si stiaccia in uno srotolamento fermo, impassibile, senza accenti: vi si riconosce l’opinione, sminuente, che l’Età contemporanea ha covato su testi e tradizione della musica sacra. Si sorride nel trovarsi, in uno stesso tempo, al cospetto dell’equivoco e del puntiglio; mentre la Missa solemnis si fa mero colosso in spregio all’evidenza storica, le voci cantano il latino con la falsa finezza della pronuncia tedesca: la diffusione della partitura beethoveniana fu infatti da subito europea, tramite l’invio di manoscritti in molte corti del vecchio continente, e in ciascuna cappella musicale rispettabile la pronuncia romana era preferita. Iperteutonicamente rubati a un Parsifal risultano, in tale orizzonte, il mezzosoprano Lioba Braun, il tenore Torsten Kerl e il basso Steven Humes (a quest’ulttimo, anzi, è precluso il legato nell’attacco dell’Agnus Dei). Provvidenziale, invece, è l’arrivo del soprano Rachel Harnisch in luogo di Ausrine Stundyte indisposta: la sua radiosa levità mozartiana dà un’idea di cosa, in questo Beethoven secondo Mehta, sia mancato alla vita pulsante del testo, dell’opera e dello stile.
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