di Luca Chierici foto © Wilfried Hösl
L’AFFOLLATA AGENDA DEI PRIMI GIORNI DI SETTEMBRE alla Scala, accanto alla prima rappresentazione del Flauto Magico, ha permesso al pubblico di ascoltare due orchestre di eccezionale valore e due direttori di grande temperamento, il secondo dei quali (Kirill Petrenko) era al suo debutto nella sala del Piermarini. Gianandrea Noseda, cinquantadue anni, non ha certo bisogno di presentazioni in Italia e all’estero e sta conducendo una notevole carriera che ha premiato la sua ferrea preparazione, il rapporto sempre felice instaurato con le orchestre con le quali ha lavorato, un approccio diretto alla musica che non si compiace di inutili divismi. Direttore ospite principale della London Symphony, Noseda ha presentato alla Scala un programma bipartito che da una parte si soffermava sul nome di Debussy per proseguire poi con la seconda sinfonia di Rachmaninov. L’esperimento compiuto dal direttore e compositore greco Nikos Christodoulou, autore della trascrizione orchestrale del secondo libro dei Préludes per pianoforte di Debussy, si è rivelato essere non più che una semplice curiosità non scevra a tratti da qualche azzeccato effetto timbrico, ascoltato nei cinque dei dodici numeri scelti da Noseda per l’occasione.
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Diciamo pure che mentre il linguaggio sinfonico di Debussy si presta abbastanza bene a essere manipolato in vista di una trascrizione pianistica (in particolare quella su due pianoforti) non così si può dire dell’operazione inversa, che è stata tentata qualche volta sempre nel caso dei Preludi o degli Studi, ma senza grande successo. E proprio il secondo libro dei Preludi rivela rispetto al primo un carattere che trova la sua ragion d’essere proprio nella specifica ricerca timbrica compiuta sullo strumento, ponendo in secondo piano il lato puramente descrittivo. Tentare di allargare questa caratteristica invocando gli strumenti dell’orchestra significa cercare di estendere ciò che è già perfetto sul pianoforte e tradire le intenzioni ultime dell’autore. Ovviamente l’esperimento non è di per sé condannabile, ma il risultato a noi sembra di gran lunga inferiore rispetto a quello raggiunto da un saggio analogo, oggetto del lavoro di Respighi nei confronti di qualcuna delle Etudes-Tableaux di Rachmaninov: in quel caso non ci si trovava però di fronte a un linguaggio pianistico di particolare valenza timbrica, bensì a una scrittura originale che davvero evocava contenuti extra-musicali, peraltro parzialmente confermati dallo stesso autore. La fantasia e la perizia orchestrale di Respighi fecero il resto e per questo motivo la trascrizione viene oggi sempre più eseguita e bene accolta.
La partitura della Seconda sinfonia dello stesso Rachmaninov è una tra le più amate da Noseda, direttore che è stato tra quelli che hanno recentemente contribuito al definitivo recupero di un corpus di tre lavori trascurati fino a non molti anni fa. La lettura di Noseda sfrutta tutte le grandi possibilità di un’orchestra di altissimo livello quale è la LSO e tende a sottolineare il carattere descrittivo, le oasi melodiche e le intensificazioni drammatiche della complessa partitura di Rachmaninov ponendosi in un certo senso in antitesi rispetto a interpretazioni che puntavano più su un continuum espressivo, come ad esempio era stato il caso di Lorin Maazel, che diresse la seconda sinfonia tra le altre cose proprio alla Scala o di Riccardo Chailly che in anni oramai lontani l’aveva eseguita con i complessi della “Verdi”.
Un successo ancora maggiore di quello già notevole tributato dal pubblico milanese a Noseda è arriso a Kirill Petrenko, più giovane di una decina d’anni e nuova star del podio riconosciuto a livello internazionale almeno a partire dal Ring da lui diretto lo scorso anno a Bayreuth. Le quotazioni di Petrenko sono ulteriormente salite grazie alla prestigiosa nomina a Direttore principale dei Berliner Philarmoniker, carica che peraltro diverrà effettiva solamente nel 2018-19. La serata aveva creato grandi aspettative da parte del pubblico che già conosceva da tempo le imprese del direttore di origine ucraine, e la presenza in sala di Riccardo Chailly, illuminato sostenitore della pluralità di presenze artistiche sul podio della Scala, aggiungeva prestigio all’evento. La risposta del pubblico sarebbe stata probabilmente entusiastica nei confronti di qualsiasi programma Petrenko, a capo della Bayerisches Staatsorchester della quale è Generalmusikdirektor, avesse scelto per la serata. Programma che in questo caso era tutt’altro che di facile impaginazione e la cui resa non sempre ha convinto nel profondo, almeno nella prima parte. L’Ouverture dai Meistersinger di Wagner, fors’anche per questioni di emozione personale da parte del direttore, è apparsa addirittura frettolosa nella scelta dei tempi e ha richiesto virtuosismi inauditi all’orchestra impegnata nelle pur chiarissima definizione di molti passaggi che meglio si sarebbero apprezzati se eseguiti a una velocità contenuta e rispettando il tradizionale gioco di tensioni e distensioni che regola il fraseggio romantico. La lettura sanguigna e tecnicamente impeccabile di Petrenko – che recentemente ha diretto l’intera opera wagneriana – ha comunque scatenato la prima bordata di applausi che ha definito il tono dell’intera serata, proseguita sul versante dell’estenuato rimpianto proprio dei Vier letzte Lieder di Richard Strauss. Qui il lato problematico era rappresentato dal timbro e dal corpo della voce della pur ammirevole Diana Damrau, soprano che cerca di estendere le proprie origini “di coloratura” ma che non fa dimenticare tante altre voci più in linea con le richieste di questa straordinaria partitura. Ne è risultata una interpretazione non sempre coinvolgente ai massimi livelli e un poco accademica, senza emozioni, con un Petrenko che cercava di assecondare al meglio le intenzioni della cantante.
Il luogo nel quale la personalità del direttore si è imposta al di sopra di ogni aspettativa e ha contribuito a raggiungere un risultato davvero eccezionale per la serata è stato alla fine quella Sinfonia domestica di Strauss che non viene eseguita sovente anche per la sua proverbiale difficoltà tecnica. Si tratta di una sorta di ultimo poema sinfonico dove Strauss raggiunge livelli di virtuosismo trascendentale nell’incastrare tra loro temi differenti e sulla carta difficilmente collegabili, ma allo stesso tempo di una partitura dove si ascoltano moltissimi elementi anticipatori di quelli che saranno importanti raggiungimenti futuri, da Die Frau ohne Schatten a Eine Alpensinfonie e via dicendo. Se a questi elementi si aggiunge l’armamentario di citazioni di dubbio gusto inerenti alla vita familiare del compositore, corredo di bisticci e di infantilismi che dovrebbero costituire il substrato narrativo della sinfonia (o più tardi dell’opera Intermezzo) ecco che può insorgere nell’ascoltatore una certa sospettosa ritrosia nei confronti dei riferimenti programmatici che a volte stanno alla base del linguaggio straussiano. Petrenko, isolando da par suo il puro messaggio sinfonico, è riuscito pure a farci dimenticare questi sottintesi e a imprimere alla Sinfonia domestica un insolito taglio vitalistico concorrendo a una esecuzione ammirevole e perfettamente sostenuta dalla “sua” orchestra, applaudita al delirio accanto al proprio direttore. Un breve discorsino di ringraziamento nei confronti del pubblico e un bis straussiano (di Johann) altrettanto virtuosistico ha concluso la serata in un tripudio di ovazioni che parevano non avere termine.
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