di Francesco Lora foto © Simone Donati – TerraProject
ANCHE NELLA SCELTA DEI TITOLI si va in balìa di mode e traini. Tra i molti casi simili, la Semiramide di Rossini ha imperversato per l’ultima volta nei primi anni Duemila, quando soltanto in Italia la si è vista in breve giro a Pesaro, Torino, Roma, Livorno, Rovigo, Trento e Pisa. Poi un lungo silenzio, interpunto da un unico allestimento a Napoli. Un periodo favorevole pare essere stato riavviato nei due anni scorsi a Lione, Parigi, Nizza, Marsiglia e Washington, e da quest’anno il cartellone internazionale contempla il capolavoro rossiniano a Bordeaux, Londra, Monaco di Baviera, Nancy e Varsavia; un nuovo allestimento della Semiramide dovrebbe costituire lo spettacolo di punta del ROF di Pesaro nel 2018, per i centocinquant’anni dalla morte del compositore e, mentre la Fenice e la Scala tacciono rispettivamente da ventiquattro e cinquantaquattro anni, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha appena inaugurato la stagione con questa colossale cristallizzazione dell’opera seria all’italiana: un gesto di bella intraprendenza agli albori di un programma tutto valoroso, per quattro recite nell’Opera di Firenze dal 27 settembre al 4 ottobre.
[restrict paid=true]
Allestimento scenico non nuovo, ma ripreso a partire da quello napoletano del 2011, con regìa di Luca Ronconi, scene di Tiziano Santi e costumi di Manuel Ungaro. Un’idea registica oziosa, dove Ronconi metteva a fuoco il leggendario personaggio del titolo secondo tratti di psicanalisi freudiana, ma si disinteressava della drammaturgia effettiva dell’opera, persino confinando il coro nella buca d’orchestra e così sottraendosi all’onere di muovere le masse in scena. Adattata da Marina Bianchi e Marie Lambert, la stessa idea risulta ora viepiù debole: gli attori sono abbandonati a sé stessi, con la sola raccomandazione di lasciare isolata la primadonna, torreggiante per statura, affinché meno evidente sia la minuta costituzione del contralto, del tenore e del basso. Scena pressoché nuda, giocata tra la luce bianca dell’atto I e il buio fosco dell’atto II, a un passo dall’astrazione visiva; un occhio di bue che insegue maldestramente gli inquadrandi; costumi ritoccati con censura più risibile dell’originale: le poppe al vento di Semiramide, rifatte in lattice e ostentate a Napoli, qui occhieggiano più gonfie da sotto l’abito.
Un’ombra nefasta deriva dalla defezione di un concertatore specializzato come Bruno Campanella, sostituito con breve margine di tempo da Antony Walker, il direttore già comparso nella recente esecuzione a Washington. L’Orchestra del MMF ha materiale tecnico di lusso raramente esperito nel Rossini serio, e fa gongolare l’udito a ogni assolo di legni o tubare di corni. La generica correttezza di Walker, tuttavia, non ha argomenti per sospingere la mera lettura della partitura alle sue implicazioni di evocazione, atmosfera, narrazione, vivo dramma; e in tal modo l’orchestra stessa, se non il relativo e puntuale coro, tende presto a demotivarsi, a impigrirsi, a mostrare ragionevole avarizia di risorse verso una bacchetta che le chiede non più del minimo sindacale. Grave è poi lo stato nel quale viene presentato il testo: un’esecuzione integrale della Semiramide significa circa quattro ore d’ascolto; per scorciare la serata di una ventina di minuti, cade non un singolo “numero” musicale (via preferibile se mai giustificabile), bensì una collezione di frasi, incisi e repliche sparse, fino a massacrare le studiate proporzioni del discorso originale.
La compagnia di canto riflette, con innocenza, il danno di una mancata terza – e quarta, volendo – generazione di specialisti rossiniani, dopo quelle che hanno reso indimenticabili gli scorsi anni Ottanta e Novanta: mancano così la perizia a tutto tondo e la condivisione dell’orizzonte stilistico. Protagonista, Jessica Pratt sa bene che una parte concepita per Isabella Colbran può aderire alla sua vocalità solo come episodio isolato e a costo di adattamenti: recupera dunque il modello della conterranea Joan Sutherland, ossia la corsa alla variazione e alla puntatura rifulgenti in terza ottava, e dà prova di un’organizzazione vocale superba, o almeno audace alla maniera di una vera primadonna. Nel contempo, limita la prestazione teatrale a un’espressività limpida e riservata, mai tragica e autorevole, dando campo a una figura femminile piuttosto giovane, inesperta, incolpevole, ben lontana dal torbido dell’uxoricidio e dai tormenti della regina, dell’amante e della madre. Una prova che, in ultima istanza, entra con piacere nella parata di ricordi del melomane, ma limitatamente all’arte del canto e senza scomodare quella del teatro.
All’opposto della Pratt si pone il mezzosoprano Silvia Tro Santafé nella parte di Arsace. Come già a Napoli, il materiale e la tecnica non sono preziosi: alla modesta avvenenza del primo supplisce la seconda, che però non ovvia a un porgere sgarbato, a una vocalizzazione cauta e a un registro grave schiacciato senza eleganza en poitrine. Il personaggio, però, è portato in scena con caparbietà, dinamismo ed entusiasmo, lasciando un segno nel gesto e nell’accento. Bifronte, a sua volta, il caso del basso Mirco Palazzi quale Assur. In lui impressionano l’esattezza dei fittissimi passaggi d’agilità, la fresca prestanza di smalto nel registro centrale, l’impegno attoriale privilegiato dalla madrelingua. Ma proprio poiché si sarebbe a un passo dall’interprete di riferimento per una parte temibile, non si trova pace al cospetto di un registro acuto sfocato e forzato già appena oltre il passaggio. Così, in un contesto di promesse malamente mantenute, l’Idreno di Juan Francisco Gatell, tenore di grazia senza essere un virtuoso, con la guizzante esilità in auge nei tempi andati, scopre di essere tra tutti il più acconcio e riscuote un applauso speciale dopo le sue arie.
[/restrict]