Il Theater an der Wien ha commissionato al compositore tedesco una nuova opera per il 400° anniversario shakespeariano. La composizione è in cartellone insieme al Macbeth di Verdi ed il Falstaff di Salieri
di Gianluigi Mattietti
PER IL 400° ANNIVERSARIO SHAKESPERIANO sono circolati, nei teatri d’opera, Macbeth, Otello, Falstaff, Roméo et Juliette,Capuleti e Montecchi, ma anche titoli un po’ più rari come Béatrice et Bénédict, per non dire delle Lustigen Weiber von Windsor di Nicolai, dell’Hamelt di Ambroise Thomas, dell’Amleto di Franco Faccio (a Bregenz e Wilmington), o delle incursioni novecentesche come A Midsummer Night’s Dream di Britten, The Tempest di Adès, il Lear di Reimann, che è ormai diventato un classico. Il Theater an der Wien ha scelto di celebrare Shakespeare con una trilogia, che comprende Macbeth di Verdi, Falstaff di Salieri (che è già una chicca) e un nuovo Hamlet, appositamente commissionato al compositore tedesco Anno Schreier.
Il libretto di Thomas Jonigk rileggeva in maniera molto personale la tragedia shakespeariana, riprendendo anche elementi dalla Historia Danica, epica nazionale danese dello storico Saxo Grammaticus, e dalle Histoires Tragiques di François de Belleforests. Jonigk ha voluto raccontare una moderna tragedia familiare, molto cupa, con una vasta gamma di intrighi, emozioni, risvolti sessuali, una vicenda senza vie d’uscita, costruita come una trappola: «Es gibt keinen Ausweg» («non c’è scampo»).
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Rispetto all’Amleto originale, ha eliminato molti personaggi (Polonio, Orazio, Rosencrantz, Guildenstern, Laerte), ha dato un carattere quasi comico al fantasma del padre, che interveniva continuamente in scena informando il pubblico sui retroscena dell’azione, ha introdotto il personaggio di un pastore protestante, che invitava Amleto a riflettere sul valore del silenzio. Ha creato una vicenda giocata su flashback e colpi di scena, usando un linguaggio moderno, molto diretto, a volte crudo. In questa rilettura, Amleto appariva come un personaggio insieme cinico e depresso, con pulsioni suicide, e con un rapporto di amore-odio (anche incestuoso) verso la madre. Re Claudio gli confessava di avere odiato e ucciso suo padre. Gertrude cercava di riconquistarne la fiducia, e pagava la prostituta Ofelia (già amante del vecchio re e di Claudio) per distoglierlo dai suoi propositi omicidi. Ma i due finivano con l’innamorarsi e sognare una nuova vita insieme, scatenando la gelosia di Gertrude, che ordinava allora a Claudio di uccidere la prostituta. E alla fine Claudio accoltellava anche Amleto, disperato dopo il ritrovamento del cadavere di Ofelia. I due sovrani annunciavano quindi la morte del giovane principe, ma anche la nascita precoce del loro figlio, che avrebbero chiamato, di nuovo Amleto.
Nella sua partitura, Anno Schreier ha dimostrato ancora una volta un grande talento per il teatro, nonostante un linguaggio musicale molto ancorato alla tradizione operistica del primo Novecento. Allievo di Manfred Trojahn e di Hans-Jürgen von Bose, borsista all’Accademia di Villa Massimo a Roma, Schreier a 37 anni è infatti già un affermato operista, come dimoitsra il successo di diversi suoi lavori, tra i quali Kein Ort (da Christa Wolf, Mainz 2006), Die Stadt der Blinden (da Saramago, Zurigo 2011), Mörder Kaspar Brand (da Edgar Allan Poe, Düsseldorf 2012), Prinzessin im Eis (Aachen 2013). La partitura di Hamlet, strutturata in maniera molto classica, con arie, concertati e cori, testimoniava una grande sapienza nella scrittura vocale, pervasa di lirismo e carica di echi di Berg e di Britten. Il coro (l’Arnold Schoenberg Chor, diretto da Erwin Ortner) commentava le vicende come un coro da tragedia greca, invisibile ai protagonisti, incalzava Amleto con domande, lo terrorizzava istillandogli l’idea della vendetta. Talvolta appariva come un coro funebre, che accompagnava il dolore di Amleto, ma assumeva anche un carattere freddo e meccanico, come di un hoquetus, in stile puntillistico e weberniano, nel celebre «essere o non essere» intonato con sillabe frammentate e disarticolate che sembravano aver perso di senso: «Sein – o – der – nicht – sein». L’orchestra, dai colori inebrianti, spesso proiettata nei registri gravi, rivelava una scrittura duttilissima, capace di seguire da vicino ogni risvolto delle vicende narrate. Assumeva un contegno ieratico e forme antifonali quando accompagnava il coro, esplodeva in gesti drammatici, dipanava lunghe fasce armoniche, soffuse ma cariche di tensione, sfruttava con abilità le emergenze solistiche degli strumenti, giocava spesso sulle tinte cupe ma mostrava anche momenti ondeggianti e sensuali, o echi distorti di musiche popolari, dal gusto espressionistico. Tutti elementi messi in bel risalto da un direttore esperto come Michael Boder, sul podio della ORF Radio-Symphonieorchester Wien, che sfoggiava un suono limpido e ricco di sfumature.
La temperatura drammatica dell’opera era ben sottolineata anche dalla regia di Christof Loy, che dava all’opera un’impronta cinematografica. Una regia piena di passione, di slanci vivi e sensuali, che dava grande rilievo al corpo dei cantanti e delle due protagoniste femminili (spesso in lingerie), e al complesso edipico che legava Amleto alla madre. La vicenda sembrava oscillare tra passato e presente, con i protagonisti in abiti moderni, Amleto con jeans e t-shirt, Gertrude vestita da sposa, il coro era in abiti neri dell’epoca elisabettiana. Tutto all’interno di una scena fissa (di Johannes Leiacker), ad angolo, come l’interno di una casa borghese, con parquet e carta floreale alle pareti, e un divano al centro, punto di riferimento di tutti gli incontri, luogo degli amplessi e delle disperazioni di Amleto. Nel secondo atto trapelava dalle porte una fitta boscaglia, come fossero le forze della natura che irrompevano nella scena.
Davvero superlativo il cast per qualità vocali e bravura nella recitazione. Amleto era Andrè Schuen, baritono spesso proiettato nel falsetto, molto espressivo, dall’aspetto giovanile e atletico che gli permetteva di caratterizzare molto bene il suo personaggio irrequieto, tormentato, sempre in movimento. Davvero regale la Getrude di Marlis Petersen, con la sua voce piena, radiosa, capace di dare rilievo drammatico a ogni singolo suono, di affrontare senza fatica le impervie escursioni vocali. Bravissima anche Theresa Kronthaler, un’Ofelia dal timbro caldo e sempre espressiva, anche nello Sprechgesang, con la sua figura slanciata, con tacchi, borsetta e tailleur, sempre elegante, anche nelle pose più sexy e nei momenti di squilibrio mentale. Gli altri tre uomini contribuivano alla varietà dei registri espressivi, sia nella parte musicale che in quella scenica: Bo Skovhus era perfetto nel ruolo del cattivo, un re Claudio spietato e granitico, privo di rimorsi; il controtenore Jochen Kowalski, nei panni del fantasma, appariva come una sorta di presentatore dai tratti comici, quasi divertito nell’osservare le orrende vicende della sua famiglia; il tenore Kurt Streit, nei panni del pastore, sfoggiava una voce carica di lirismo, soprattutto nella sua grande aria del secondo atto, modellata come una parodia dei “valzer” di Ravel e di Richard Strauss.
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