Un Mozart appropriato con il direttore e per contro le dolenti note di un fortepiano quasi inudibile
di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
L’Orchestre des Champs-Élysées è un’eccellente formazione dalle ottime prime parti impegnate su strumenti originali e Philippe Herreweghe – lo sanno bene gli audiofili e gli appassionati – è direttore di forte caratura e raffinata sensibilità che solamente le stereotipe convenzioni di certo giornalismo superficiale hanno etichettato come ‘barocchista’: esperto sì di esecuzioni cosiddette filologiche, ma condotte sempre – come occorre – con intelligenza, eleganza e grande equilibrio. Sicché erano molte, legittimamente, le aspettative per il secondo concerto in cartellone della stagione di Lingotto Musica, a Torino, la sera di mercoledì 9 novembre 2016. Attese che non sono certo andate deluse, quanto meno per la seconda parte del programma, quella mozartiana.
E allora ecco la gioia di ascoltare uno dei superbi tre capolavori sinfonici dell’ultimo Mozart, la K 543 scritta nella ‘massonica’ e solenne tonalità di mi bemolle maggiore in un’interpretazione davvero ‘pulita’ e lineare di innegabile efficacia: a partire dall’icastico Adagio cesellato con somma cura da Herreweghe, Adagio destinato a sfociare he poi subito nel vasto Allegro, al quale direttore e orchestra molto opportunamente hanno impresso una singolare vis, un’eccezionale e aitante allure, insomma una una positiva brillantezza e un’energetica carica ritmica che ha ibridato di gioia questa pagina sublime. Del successivo Andante con moto affrontato senza indugi, con passo deciso e virile compostezza, colpiva l’episodio centrale, molto Sturm un d Drang che Herreweghe non ha caricato di eccessivo ‘peso’ pre romantico, come giusto, facendolo pur tuttavia emergere al meglio nel contrasto con la celestiale bellezza delle sezioni estreme. Bene poi anche il Minuetto, col Trio dai clarinetti bene in vista a delineare un clima quasi da Serenata. Da ultimo la gioia dello scattante Finale, cinciso e scintillante, con quel tema in bilico tra lo Haydn più arguto e bonario e certo Beethoven: di marca segnatamente haydniana le molte trouvailles e le sapide boutades, gli improvvisi scarti tonali, laddove la tornitura del tema pare prodigiosamente anticipare il disegno poi adottato da Beethoven nel Finale della Settima, senza pur tuttavia possederne l’ebbra sfrenatezza né la forsennata concitazione.
E non a caso, proprio il Finale della Settima è stato oggetto di (gradito) bis: anche se a ben guardare avremmo desiderato un po’ più di misura e di eleganza. Herreweghe ha sbrigliato fin troppo l’orchestra, lasciandola correre, senza contenerne gli empiti dinamici. E allora ne è emersa una interpretazione un po’ troppo rumorosa, francamente sopra le righe.
Dolenti note, invece nella prima parte della serata con il pur corretto Bertrand Chamayou alle prese col monumentale Quinto Concerto di Beethoven, L’Imperatore: sul palco del Lingotto, in luogo del gran coda d’ordinanza, un fortepiano Lagrassa 1815 dalle esili sonorità. E già l’attacco, con quel fiero unisono orchestrale e poi subito la cadenza distribuita sull’intera tastiera, ha mostrato i limiti dello strumento: suono troppo sferragliante all’acuto, più clavicembalistico che non pianistico, mancanza di cantabile, bassi assolutamente inadeguati per una sala da quasi 2000 posti.
Le normali orchestre sinfoniche possiedono una dinamica vastissima, con possibili gradazioni – per capirsi – da 1 a 200, anche più; in tal caso diciamo che Herreweghe ha calmierato le potenzialità, limitando… da 1 a 100: ma in presenza di un fortepiano con un range dinamico da 1 a 10 (o forse anche solo da 1 a 5, per mantenere la metafora numerica) è inevitabile che gli squilibri fonici si facessero sentire come un limite invalicabile. E dunque da metà sala molti passaggi, specie qui sublimi passi in cui lo strumento a tastiera accompagna l’orchestra come un mirifico Glockenspiel, si sono persi quasi del tutto, risultando inudibili.
Perché, ci si domanda, rinunciare alle potenzialità di un moderno pianoforte? Soprattutto nel Quinto dove il visionario e chiaroveggente Beethoven ha saputo intuire, anticipare e preconizzare proprio le possibilità inaudite d un più moderno e dotato strumento? Ancora si fosse trattato del Concerto in re maggiore di Haydn o di uno dei primi di Mozart, ma L’imperatore… suvvia. Il pubblico ha applaudito ugualmente con calore (alcuni fans sfegatati hanno urlato Bravo! al pur valido fortepianista), ma le perplessità erano palesi in molti; per dire, il secondo tempo, proprio per le carenze di cantabile dello strumento, proprio per la difficoltà di far emergere il suono e sostenerelo è stato affrontato a velocità sostenuta, vanificandone tutto il pathos. Nel finale, poi il divario tra compagine orchestrale e fortepiano appariva davvero eccessiva (inoltre lo strumento, suonato con vigore per contrastare l’orchestra, mostrava un’accordatura non più immacolata). Il celeberrimo passaggio col timpano solista (ma perché usare i timpani barocchi?) è apparso stranito e opaco, diseguale se non sgraziato. Bis nel segno di Haydn, con il movimento lento di una Sonata tastieristica, già dalla sensibilità pre romantica. Ma anche in questo caso la sensazione, chiudendo gli occhi, era quella di trovarsi in un foyer ad ascoltare di straforo come dietro una cortina di velluto.
Concludendo, c’è poco da fare: va bene la filologia, ma scelte di tal fatta non possono (verrebbe da dire, anzi, non devono) prescindere dall’acustica ambientale, diversamente dissimili e contrastanti presupposti rischiano di collidere – inevitabilmente – con risultato, spiace dirlo, del tutto fallimentare.