Tallone d’Achille delle recite al Teatro Comunale è non la regìa di Alessio Pizzech o la concertazione di Renato Palumbo, entrambe analitiche, ma una compagnia di canto perlopiù inadeguata
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
Basta una fotografia a circolazione virale: il buffone in tacchi alti e calze a rete; e subito il Rigoletto in scena al Teatro Comunale di Bologna (nove recite dall’8 al 18 novembre) è tacciato, da chi c’era e da chi non c’era, di inutile provocazione e di scandalo verdicida. Al contrario, nel nuovo allestimento con regìa di Alessio Pizzech, scene di Davide Amadei e costumi di Carla Ricotti si vede innanzitutto l’uomo umiliato con una divisa non voluta, abito ridicolo a misura delle orge ducali condannate dal Conte di Monterone. Null’altro che un differente e lancinante modo di raffigurare la gobba; null’altro che un modo di tenere vivo l’argomento di censura sociale osato in libretto e musica da Francesco Maria Piave e Giuseppe Verdi.
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Uno spettacolo improntato a una rigorosa economia e con qualche ingenuità nella coordinazione di palcoscenico: nell’ultimo atto si sa che il Duca di Mantova si è ritirato da una parte, ma lo si ascolta poi riprendere la sua canzonaccia dalle quinte opposte. Pure, anche in questo caso valida è l’idea di mutare l’osteria di Sparafucile in una vecchia imbarcazione: le acque del fiume sono così sottintese anche senza rappresentarle, e il lento allontanarsi della carretta, mentre il Duca canta, ribadisce la tragicomica impotenza di Rigoletto, lasciato sulla sponda con la figlia morente mentre il nemico sparisce in salvo. Non nuova è la raffigurazione di Gilda come bambola vivente chiusa nella vetrina paterna: ma con nuova forza si vede la protesta della donna, decisa a dismettere le carinerie da espositore per morire in una disinvolta sottoveste; ma con nuova forza, ancora, si vede la processione delle altre donne-bambola: quelle che i padri avrebbero tutelato fino alla mania, le stesse che il Duca consuma come meri giocattoli. Uno spettacolo che partecipa dunque all’analisi del testo anziché alla sua descrizione, e che senza imporsi in assoluto merita tuttavia altra attenzione di pubblico e critica.
Eccellenti spunti d’analisi musicale, tanto più efficaci poiché elementari, sarebbero anche nella concertazione di Renato Palumbo. Quando Gilda si confida a Giovanna e del misterioso amato dice «Signor né principe – io lo vorrei», dopo i pochi versi di recitativo si ascolta finalmente un tempo d’attacco oltremodo mosso e danzante, che al vicino di posto strappa un commento sprezzante, e che invece sta aprendo un nuovo orizzonte musicale e teatrale, festoso e sognante, appropriato sia alla struttura del “numero” sia al pensiero del personaggio. Lo stesso vicino di posto arde di furore quando le sestine di «Cortigiani, vil razza dannata» sono staccate a tempo indiavolato, a dispetto di una ben più moderata tradizione: ma proprio questo richiederebbe il discorso musicale, se – ecco il punto – non fosse l’imperizia del baritono a vanificarne la bontà.
Tallone d’Achille delle rappresentazioni è infatti una (prima) compagnia di canto perlopiù inadeguata: per esempio disattenta alla sincronizzazione tra palcoscenico e buca d’orchestra, con continui sfasamenti a sé sola imputabili, e ostinata a sfoggiare con mezzi esigui le rozze puntature e cadenze dell’uso provinciale. Imbarazzanti problemi d’intonazione, uniti al recupero dei più triti birignao, affliggono Marco Caria nella parte protagonistica; e la restituzione mnemonica delle parole e della musica risulta così trasandata da far persino credere difficoltà di lettura e comprensione del testo in quanto tale. Spiace del pari l’approccio di Celso Albelo alla parte del Duca: si gode della favolosa facilità del registro acuto, ma palese è il frettoloso disinteresse alle ragioni del teatro e della musica (versi memorabili dimenticati, fiati presi ovunque a casaccio); manco a dirlo, la ripetizione della cabaletta è falciata via e nemmeno conclusa col Re sopracuto che – puntatura oggi inosabile – sarebbe invece alla portata di questo tenore.
Il commento vira in positivo circa la Gilda di Irina Lungu. La tradizione d’affidare la parte a soprani leggeri è così radicata da aver talvolta indotto i concorsi per voci verdiane al bando dell’aria «Caro nome che il mio cor»: l’escamotage basta a tenere alla larga candidate inadatte a un’autentica militanza nel repertorio del Bussetano. La Lungu vanta invece un’ombra timbrica, una rotondità di registro centrale e una generosità di suono degne di tutta la produzione verdiana, e finalmente atte a equiparare Gilda alla Violetta della Traviata e alla Leonora del Trovatore: non tutte le note squillano con sicurezza tecnica, né la modulazione eccede la correttezza scolastica; ma le mire dello spettacolo bolognese sarebbe cadute, se a ribellarsi al ruolo di donna-fantoccio fosse stato il solito sopranino bamboleggiante, anziché quest’artista di cospicua sostanza vocale e di matura femminilità espressiva.
Orecchi sempre aperti sul giovane basso Antonio Di Matteo, che qui tiene la parte di Sparafucile e vi fa ascoltare materiale vocale di straordinaria dotazione naturale in fatto di armonici, smalto e risonanza. Un giudizio severo piglia invece nella stessa rete caratteristi e comprimari, di norma impiegati con mezzi troppo modesti nelle parti loro affidate: è il caso di Rossana Rinaldi, Maddalena flebile e incline alla volgarità verista; dei poco muniti Beste Kalender, Pietro Picone, Hupo Laporte e Marianna Mennitti come Giovanna, Matteo Borsa, Conte di Ceprano e Contessa di Ceprano (quest’ultima cumulata col Paggio); di Raffaele Pisani come Marullo: porgere spigliatissimo, che si distingue nell’insieme, ma risorse esigue; nonché di Andrea Patucelli come Monterone, affannosamente sottodimensionato rispetto a una parte breve, sì, ma che per autorevolezza vocale dovrebbe letteralmente scuotere «qual tuono».
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