Regolarmente impegnati insieme in spettacoli operistici, tenore e concertatore si presentano a pieni giri in un concerto bolognese
di Francesco Lora
Hanno dominato l’estate musicale con La donna del lago a Pesaro, hanno appena debuttato e trionfato negli Huguenots a Berlino, stanno per concludere l’annus optimus con un Werther a Bologna. Durante le prove di quest’ultimo, Juan Diego Flórez e Michele Mariotti, tenore e concertatore amici di vecchia data, hanno trovato il tempo per trasfigurare la loro alleanza in un concerto: capoluogo emiliano, Teatro Manzoni, 4 dicembre; e ragionatissimo programma che ora conferma, ora risarcisce, ora sorprende.
Dopo una severa e scattante Ouverture della Zauberflöte, per esempio, è contemplato un trittico di arie mozartiane, quelle dove s’usa mitizzare smunti tenori di scuola anglotedesca e dove il sommo belcantista rimarrà un sogno proibito: non si spreca un Flórez, dalle virtù al cachet, per cantare le parti non protagonistiche di Ferrando o Don Ottavio. E invece qui si ascoltano «Un’aura amorosa» da Così fan tutte e «Il mio tesoro intanto» dal Don Giovanni, presentate come pezzi per scaldare la voce e nel contempo drogate per indurre la sindrome di Stendhal: non esiste oggi un altro cantante che, nell’una e nell’altra, comunichi oggi la stessa certezza di facilità, la stessa fresca comunicativa, la stessa tornitura di frase, in un legato che ammalia, e la stessa sollecitudine a sgranare la coloratura di forza. Qualche maggior speranza s’ha di ascoltare, un giorno, Flórez nella parte eponima dell’Idomeneo: il suo «Fuor del mar ho un mare in seno» ha baldanza giovanile più che tormento paterno, eredita il franco e nobile accento che fu soltanto di Luciano Pavarotti, veleggia su agilità che sfiderebbero Rockwell Blake, se momenti di amnesia – si canta a memoria – non le scorciassero di qualche semicroma.
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Dopo Mozart, ecco Rossini. Dapprima con la Sinfonia della Semiramide: Mariotti ne trae alla luce soprattutto le grandezze strutturali del periodo napoletano, favorendo la torva pompa ritmica rispetto alla grazia stessa dei temi minori. Poi è la volta di due arie: «S’ella m’è ognor fedele» da Ricciardo e Zoraide meglio s’apprezzerebbe se, in onore al magistero flóreziano, non si accondiscendesse al malvezzo di sopprimere la ripresa della cabaletta; intatta splende invece la cavatina dalla Semiramide, «Ah dov’è, dov’è il cimento?», dove tutto nell’esecuzione trasuda spensierata specializzazione: dalle scale di notine agli acuti presi di salto, e dall’elegante fragranza del porgere all’assoggettamento delle scabrose terzine.
Con prudenza, il repertorio del tenore peruviano corteggia però da anni l’Ottocento pieno e i suoi primi strascichi novecenteschi. Si passa così a tre romanze di Leoncavallo, Aprile, Vieni, amor mio e Mattinata: trascinanti ventate languorose o esotiche nella Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna, percorsa dalla bacchetta filoperistica e a tutto tondo di Mariotti; seducente fraseggio di Flórez, che sa conservare timbro e sostanza anche nella tessitura mediana della strofa, salvo poi impennarsi nelle squillantissime ultime note concesse da ciascun brano. Srotolato con incedere plastico ed evocativo, l’Intermezzo della Cavalleria rusticana di Mascagni sigla il discorso appena lasciato. Ben diverso è quello che attende: «Plus blanche que la blanche hermine», dagli Huguenots di Meyerbeer, vede dispensate mezzevoci tecniche ed estasi espressive che, nella superiore forbitezza del contesto concertistico, riescono a superare la prova già immacolata di Berlino.
Introdotto da una rombante Sinfonia della Luisa Miller, lo spazio di Verdi replica in altra scala la considerazione intorno a Mozart: solo il teatro di Creso potrebbe scialare Flórez nell’Oronte dei Lombardi alla prima crociata o nell’Alfredo della Traviata; ma fa male prenderne atto, una volta apprezzata la suprema levigatezza qui conferita a «La mia letizia infondere» e a «De’ miei bollenti spiriti» (solo il cantabile nel primo caso, cantabile e cabaletta nel secondo). Festa grande al momento degli encores, col tenore scatenato in autoironia e armi segrete: monta su uno sgabello, impugna la chitarra, si accompagna da sé e, con due canzoni dell’America latina, scioglie il critico musicale come Orfeo con Caronte. Infine, l’esplosione orchestrale tenuta in serbo da Mariotti per l’immancabile Granada di Augustín Lara; Flórez vi monta sopra incandescente: oggi non ve n’è un altro.
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