di Cesare Galla foto © Michele Crosera
Tannhäuser si aggira in canotta grigia e brache da carpentiere, Venere rinuncia a ogni suggestione mitologica e sfoggia una sottoveste nera da “escort” di quart’ordine. La sua montagna – luogo fatale della perdizione senza ritorno – è un’oscura boscaglia dove alberi frondosi crescono alla rovescia, manovrati dall’alto da paranchi e carrucole il cui acciaio brilla nelle sciabolate di alcuni fari. L’effetto visivo, a suo modo, è d’impatto. Il primo atto di Tannhäuser secondo Calixto Bieito insiste molto sul rapporto fra eros e oscurità. E l’unica cosa che non si capisce – ma non è di poco conto – è per quale motivo il cantore avviluppato nelle spire della lussuria sia così tormentato e voglia rinunciare ai piaceri della carne, anche se non ne è proprio sicuro dopo avere assaggiato per l’ennesima volta quel che Venere sa offrirgli. Ma questo è prima di tutto un problema di Wagner. Che forse proprio a ciò si riferiva quando affermava che doveva al suo pubblico una versione “ultima” di questa sua opera, peraltro mai realizzata.
Contraddizioni di un Io diviso, drammi interiori degni di un Tristano, nel quale peraltro tutto è molto più nitido e inesorabile, se così possiamo dire. Poiché in questo allestimento la “grande opera romantica” di Wagner viene proposta in versione remix, con il primo atto della versione di Parigi (1861) e gli altri due dell’edizione di Dresda (1845), Bieito ha anche le sue ragioni. È ben noto, infatti, come la riscrittura parigina risenta del clima, delle inquietudini, anche delle tensioni musicali che sono il complesso mondo del capolavoro su amore e morte, da poco portato a termine. Convinto, a ragione, che Tannhäuser sia un opera sul desiderio, il controverso regista catalano proclama che il suo scopo, “junghianamente”, è mettere in rapporto la musica con l’inconscio. Uno scontro di archètipi, nel quale ciascuno va per la sua strada. Mentre Wagner segue il suo percorso, intermittente e avvincente, anche contradditorio ma evocativo del nascente suo mondo mitico e storico, culturale e filosofico, Bieito – ben supportato per le scene da Rebecca Ringst, per i costumi da Ingo Krügler e per le luci da Michael Bauer – delinea una sua febbrile e morbosa “contro-storia”.
In essa, la pia Elisabetta (che molto ricorda, nell’abbigliamento, l’aborrita Venere) è tutt’altro che una santerellina e forse per questo finisce preda della congrega degli altri cantori, che alla fine trasformano la tenzone poetico-canora sul tema d’amore della Wartburg (secondo atto) in un tentativo di stupro di gruppo, che si scatena proprio quando Tannhäuser confessa il suo peccato erotico. Del resto, anche il sostenitore dell’amore più angelicato e celeste che sia possibile immaginare, il severo Wolfram von Eschenbach, nel momento (terzo atto) in cui Elisabetta sacrifica la sua vita alla Vergine per salvare quella dell’amato Tannhäuser, pensa bene di dare una mano ai disegni divini. E ripetutamente prova a strangolare la giovane, folle di libidine frustrata, peraltro da lei stuzzicata. Quanto questa “narrazione” coincida con le idee di Wagner, che poi a Wolfram proprio in quei frangenti affida la popolare e sentimentalissima Romanza sulla “stella della sera”, ciascuno può intuire.
Ma Bieito non teme né l’assurdo né il grottesco: se Wagner è nato troppo presto per diventare un paziente di Carl Gustav Jung e un eroe della psicologia analitica, ci pensa lui a mettere in luce quel che il musicista potrebbe avere inconsciamente intuito. Non senza premunirsi con il pubblico, dichiarando in un’intervista pubblicata sul programma di sala, che non c’è nulla di cui aver paura. Paura nessuna, fastidio moderato (più che altro per la rozzezza da caricatura di film neorealistico, che tutti i personaggi sbandierano, platealmente contraddicendo quel che dicono e cantano). Ma anche, altrettanto poco interesse. E chissà cosa ne direbbero – in ordine di importanza – Bieito e Jung.
Il pubblico che affollava la Fenice (dove questo spettacolo è approdato dopo essere stato visto ad Anversa, essendo frutto di una coproduzione con quel teatro e con quelli di Genova e di Berna), ha applaudito cortesemente un po’ tutti e ha riservato qualche dissenso al regista. Nulla che non fosse stato messo in conto dal fantasioso uomo di teatro catalano. I maggiori consensi se li è accaparrati il giovane direttore Omer Meir Wellber, e a buona ragione. La sua lettura di Tannhäuser è stata la nota di eccellenza della serata veneziana. Se la celeberrima Ouverture è sembrata qua e là di asciuttezza così insistita da sfiorare la secchezza, il seguito ha visto crescere e affermarsi un fraseggio duttile, di ampio respiro, capace di sottigliezze coloristiche affascinanti e di accensioni drammatiche coinvolgenti, nel quale un ruolo fondamentale ha rivestito la concentrazione e l’efficacia dell’orchestra della Fenice. Wellber coglie l’afflato narrativo e implicitamente leggendario della partitura e lo restituisce con sorvegliata ma incisiva forza espressiva, senza mai perdere il senso complessivo dell’affresco, ma indugiando con efficacia sui particolari rivelatori.
Se la compagnia di canto lo avesse seguito su questa strada, saremmo a parlare di una grande esecuzione, ma purtroppo non è stato così. Nella vasta compagine si sono messi in evidenza il Wolfram di Christoph Pohl, baritono di voce educata e di stile wagneriano ben delineato e tutto sommato anche il Langravio di Pavlo Balakin, un basso forse non abbastanza profondo ma capace di qualche buona sfumatura. Il gruppo degli altri cantori fa la sua parte, mentre il tenore Stefan Vinke, nel ruolo del titolo, segue il regista sulla strada di un’interpretazione onirico-espressionista che si risolve in linee di canto ruvide all’eccesso, spesso fuori controllo nella zona alta della tessitura, sempre a rischio di precisione. Un Tannhäuser campione di beceraggine, spesso tonitruante senza motivo, che conosce una sola sfumatura: il canto forte e mal timbrato. Inclina a questo pericolo anche la Venere di Ausrine Stundyte, che non tiene sotto controllo gli acuti e finisce per affidare solo ai gesti le sfumature della sensualità. Più in parte Liene Kinča, che disegna un’Elisabetta sofferta e incerta di fronte al sentimento d’amore, vocalmente e musicalmente assai più rifinita della sua “controparte” erotica. Il coro della Fenice, istruito da Claudio Marino Moretti, si è impegnato con profitto, talvolta spingendo senza reale necessità ma anche cogliendo la ieratica maestosità delle sue pagine più significative.