di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolo
Formazione di gran classe, quella della Junge Deutsche Philharmonie, approdata a Torino la sera di mercoledì 8 marzo 2017, per la stagione di Lingotto Musica: un centinaio di orchestrali di età compresa tra i diciotto e i ventotto anni che, sotto la guida esperta e la bacchetta precisa di Jonathan Nott, suonano con indicibile freschezza, entusiasmo e una professionalità che è raro trovare in analoghe formazioni giovanili (e a dire il vero può reggere agevolmente il confronto anche con ben più blasonate orchestre). Non solo, un programma davvero ben impaginato con le raffinate Valses nobles et sentimentales di Ravel, poi gli struggenti Kindertotenlieder mahleriani, da ultimo la Quindicesima di Šostakovič, pagina singolare, toccante e bellissima.
Dei Valzer raveliani Nott, ben assecondato dai ‘suoi’ ragazzi, con rigore fin troppo teutonico, in complesso coglie l’esprit: e allora ecco la scioltezza ritmica e la nitida flessuosità dell’esordio, ma poi anche il languore, l’estenuazione rarefatta, quel quid di arcaicizzante che qua e là occhieggia, impreziosito da tinnuli rintocchi ed eleganze timbriche di indicibile charme; quegli spostamenti d’accento croccanti e sbarazzini, prossimi a certe atmosfere armoniche del Tombeau de Couperin, le vistose quanto emozionanti avvisaglie de La Valse dal clima invero assai più tragico, le brume oniriche e infine il gioco intellettuale dei rimandi tematici e delle allusioni interne nella pagina conclusiva, quasi sintesi dell’intera raccolta. Un’interpretazione senza dubbio di lusso. Avremmo solamente desiderato un pizzico di souplesse in più, l’impressione generale infatti, a fine ascolto – lo si anticipava poc’anzi – era quella di un Ravel un po’ troppo tedesco: e pur tuttavia anche questa è un’opzione possibile, mettere l’accento su quel che di meccanico e angoloso, peraltro insito in molte partiture dell’autore del Boléro, anziché accentuarne le alchimie timbrico-armoniche di natura squisitamente parigina.
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E dunque ecco l’universo tedesco con i sublimi Kindertotenlieder impregnati di decadentismo, Sehnsucht e – ça va sans dire – il senso della morte per così dire immanente, palpabile ad ogni battuta. Il mezzosoprano Michelle Breedt ha convinto solamente in parte, sul piano squisitamente tecnico, con asprezze nel medio grave e qualche disomogeneità negli impervi passaggi di registro richiesti, regalando peraltro emozioni notevoli nell’interpretazione di questo assoluto capolavoro di introspezione psicologica affrontato dall’orchestra con apprezzabile appropriatezza. Fin dall’iniziale Nun will dal clima cupo e statico e dalla sovrumana bellezza timbrica; poi ecco gli empiti appassionati della voce in Nun seh’ich, non lontano sul piano espressivo dal celeberrimo Adagietto della Quinta, e ancora il ritmo funereo reso dai rintocchi insistenti in Wenn dein Mütterlein, ove i legni vanno tessendo una trama di struggente mestizia, tutti dettagli ben focalizzati da Nott; così pure l’atmosfera in apparenza un poco più distesa (ma è sensazione illusoria) del quarto Lied. Quanta emozione infine nel clima tempestoso e livido, molto Sturmisch, in apertura dell’ultimo Lied con la voce che esplora un vasto spettro di registri: vira per un attimo verso orizzonti da dolce, cullante berceuse, e pare richiamare i climi fiabeschi della Quarta Sinfonia. Tutto un mondo di rimandi, tutto un gioco di echi interiori che Nott e i bravissimi orchestrali hanno saputo rendere al meglio.
Finale di serata nel segno del sovietico Šostakovič. La Quindicesima si pone come il vero e proprio testamento spirituale dell’autore di Lady Macbeth: è infatti la sua ultima fatica sinfonica condotta a termine nel 1971, quando ormai la salute di Šostakovič era irreparabilmente minata. Una Sinfonia che si apre in un modo e conclude in tutt’altro clima, sismografo verosimile di intervenuti mutamenti psichici a seguito della malattia. Un primo tempo tutto ironia, timbri taglienti e grottesche sortite, con la comica e riconoscibilissima emersione di un frammento dal rossiniano Guglielmo Tell, ma poi con il Corale del secondo tempo e l’assolo del violoncello (dignitosamente disimpegnato dalla giovanissima prima parte) fanno intendere che l’orizzonte è mutato. È vero, non mancano clangori, apici dinamici ed esacerbati fortissimi in cui la JDP ha avuto modo di espandersi al meglio, peraltro è una cifra notturna a prevalere laddove archi con sordina esalano delicati sospiri, quasi mimando un coro liturgico. Giù giù sino ai ticchettii ansimanti ed enigmatici delle ultime misure, sfuggenti, impregnate di arcano mistero: la Sinfonia dopo citazioni tristaniane va spegnendosi infatti nel nulla e dà i brividi al pensiero della verosimile consapevolezza da parte di Šostakovič di essere ormai condannato; senza voler troppo legare biografia ed opere, certo però che quei remoti rintocchi, quella «mobilità formicolante di pulsazioni e fremiti» emanano un sentore di presagio della fine, innescando profonde emozioni.
Interpretazione davvero toccante quella della JDP, grazie alla bravura delle prime parti, in tutte le sezioni, alla coesione, al bel suono e alla cura estrema dei dettagli: merito certo di Jonathan Nott che dirige con gesto ‘pulito’, netto ed efficace, soffermandosi sui più piccoli dettagli, senza nel contempo mai perdere la visione d’insieme. Che altro desiderare di più? Forse… un bis: che dopo un programma sì variegato e impegnativo – legittimamente – non è stato concesso.
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