La Messa in si minore è stata eseguita nella stagione dell’associazione Lingotto Musica. Sul palco anche il Windsbacher Knabenchor, direzione di Martin Lehmann
di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolo
È DI GRAN LUNGA il coro il protagonista assoluto della bachiana Messa in si minore che a Torino – la sera di lunedì 3 aprile 2017, presso l’Auditorium ‘Agnelli’, per la stagione di Lingotto Musica – ha potuto beneficiare di un’interpretazione di altissimo livello: grazie alla superlativa performance dell’Akademie für Alte Musik Berlin magistralmente diretta da Martin Lehmann, abile nel vivificare ogni singola battuta coi giusti fraseggi, imprimendo laddove occorre quella scioltezza propulsiva e quella magnificenza sonora che, a un esame superficiale, si direbbero di matrice quasi haendeliana, indugiando invece molto opportunamente sui passi più rarefatti.
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Fondamentale e davvero commovente è stato l’apporto fornito dalle voci bianche, e dunque gli applauditissimi fanciulli del Windsbacher Knabenchor che affiancavano le voci adulte maschili, disimpegnando le parti sopranili in maniera a dir poco strepitosa, con una perfezione ritmica e di intonazione pressoché assoluta, insomma con una bravura che lasciava senza respiro. Molti, in conseguenza, sono stati i momenti di pura emozione, già a partire dall’attacco del vasto Kyrie poi coronato da una maestosa Fuga che inaugura la Missa: uno dei più straordinari capolavori non solamente della produzione del Kantor lipsiense bensì della storia della musica di tutti i tempi, vero e proprio monumentum sonoro dalla singolarissima aderenza testuale. Nel quale il luterano Bach seppe riversare un’incredibile quantità di contenuti espressivi, avvalendosi di una scrittura polifonica che ha del prodigioso; non solo, rivelando un’umana partecipazione, una pietas che di norma seducono anche l’ateo e al credente, a maggior ragione, forniscono una chiaroveggente chiave di lettura, verrebbe da dire di natura smaccatamente teologica.
Ben sedici i blocchi corali, su complessivi 25 brani: tanti ne conta la Messa BWV 232 dalla composita articolazione formale e dalla variegata, non rettilinea genesi. Trovarsi al cospetto di questo capolavoro eccelso che ha pochi altri eguali nell’intero e ultra secolare patrimonio della musica sacra è esperienza emotivamente coinvolgente, totalizzante: un’ora e quaranta o poco più a contatto con l’assoluto. E allora dopo il grandioso, stupefacente Kyrie d’apertura dall’impianto mottettistico e dal sublime attacco, ecco poi subito il leggiadro duetto con violino obbligato sul Christe, ben risolto sul piano interpretativo dal soprano catalano Nuria Rial e, più ancora, dall’ottima emissione e dalla notevole appropriatezza stilistica del mezzosoprano statunitense Rebecca Martin. Poi lo sfolgorio luminescente del Gloria, con tanto di altisonanti trombe e timpani a evidenziare la gioiosa esaltazione del ‘vero’ credente dinanzi al mistero della natività, ma anche, per contro, la cura adoperata nel centellinare l’umanissimo passaggio dell’Et in terra pax hominibus; ammirata la souplesse nell’affrontare la leggiadra aria del Laudamus, come pure l’icastica compattezza del Gratias agimus, superbo passo destinato a riapparire al termine della Messa. Qualche perplessità ha destato invece il tenore Markus Schäfer, apparso un po’ fuori stile se non addirittura ‘sopra le righe’ nel duetto canonico Domine Deus col flauto obbligato mentre l’esecuzione rasentava la perfezione assoluta nel vasto meccanismo ad orologeria del Cum Sancto Spiritu.
Quante emozioni, poi nello screziato Credo (o Symbolum nicenum) dall’assertivo esordio, quanta espressività nell’Incarnatus volto a ‘rendere’ il mistero dell’incarnazione, per l’appunto, quanto pathos nel Crucifixus che si espande su quel basso di ciaccona destinato a scendere cromaticamente, dolente e desolato «blocco di reverente scavo interiore nel dolore, tra i più impressionanti – è stato notato – in tutta l’opera di Bach», comparabile solamente a certi passaggi della Passione Secondo San Matteo. O ancora l’addentrarsi entro le regioni gravi nell’accorato e partecipe Sepultus est, seguito dallo scintillio svettante del Resurrexit. Quindi il sublime Et expecto resurretionem mortuorum, la ialina polifonia di Pleni sun coeli, la magistrale Fuga a doppio coro su Osanna nel giubilante Sanctus, giù giù sino al conclusivo, rasserenante ed ‘ecumenico’ Dona nobis pacem.
Un vero trionfo e, al termine di una serata della quale conserveremo a lungo vivace ricordo, applausi protratti: per coro solisti, direttore ed orchestra: un ensemble specialistico che suona con strumenti originali, sapendo coniugare lodevolmente filologia e resa fonica. Per dire, è raro trovare trombe naturali di così corposa bellezza e dall’intonazione adamantina, assolutamente ineccepibile. Idem dicasi del corno da caccia (che ha primeggiato in Quoniam tu solus sanctus affiancando il basso Thomas Laske) e degli oboi d’amore (così spesso altrove calanti o crescenti). Un ensemble lontano dai manierismi e dai vezzi di certuni barocchisti, dunque in grado di restituire alla partitura tutta la sua intensità, la sua vis drammatica e il suo nitore.
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