di Santi Calabrò foto © Giacomo Orlando
«Aber ein Wurf, ein Wurf…» (Ma che mira, che mira…) esclama Adrian Leverkühn, protagonista del Doctor Faustus manniano, a proposito della Salome di Richard Strauss: opera capace di imporsi come un grande successo di pubblico pur assumendo connotazioni estetiche molto aggiornate quanto a soggetto, drammaturgia, linguaggio musicale. Modernismo e successo eclatante non sempre si accoppiano (la storia della musica del Novecento racconta a tale proposito più divorzi che matrimoni); ma quando va bene – a Strauss andò talmente bene che, come ammise, con la Salome poté permettersi la sua villa di Garmisch – la “buona mira creativa” produce un capolavoro insieme inaudito e già votato alla classicità. Per la nuova produzione della Salome a Catania, tuttavia, la “precisione” che subito si impone grazie alle geometrie volute da Pierluigi Pizzi (che firma regìa, scene, costumi) va ben oltre quella di un’opera che mescola con sapienza le sue componenti: nella sua perfetta rotondità la sfera lunare, al centro della scena, è esattamente corrispondente alla buca sottostante che rappresenta il carcere in cui è racchiuso il Battista.
[restrict paid=true]
Due simboli capitali dell’opera – la luna argentata che illumina l’amore necrofilo, l’antro oscuro (come un torbido inconscio) da cui emergono la voce profetica di Jochanaan e alla fine la sua testa mozzata – vengono così visivamente riuniti, entrando in corrispondenza con l’assoluta centralità della protagonista: la psiche alterata di Salome, la sua lussuriosa necrofilia che dà presto segnali di sé – ancora vivente l’uomo concupito – sono intese dal regista come le forze che fanno dell’opera un “classico”. L’essenza di questa Salome allestita da Pizzi non è dunque in un’opera alla moda nel 1905 e ancora oggi in equilibrio tra liberty ed espressionismo, tra dissonanze provocatorie e rassicuranti soluzioni armoniche e melodiche, ma è nel peso schiacciante che assume un punto di vista unico. Salome appare perciò un classico non in quanto il suo inquietante contenuto viene classicizzato, ma in quanto l’adesione fisica della musica alla psicologia domina l’opera con la stessa forza inequivocabile e connotante con cui la prospettiva rappresenta il proprium di un quadro di Piero Della Francesca o la drammatizzazione delle modulazioni costituisce il cardine di una Sinfonia di Beethoven.
Il fatto che la scena sia così geometrica e stilizzata accentua qui la portata metastorica dell’opera, tanto in linea con le correnti artistiche della sua epoca, quanto capace di trascenderle con un atto di forza creativa. Tutto nella regia accentua la potente dimensione di Salome come monodramma interiore, attorno a cui ogni cosa diviene cornice: del resto, il suicidio di Narraboth, la lussuria di Erode, la fierezza del Battista, la stessa morte della protagonista sono elementi subordinati, in partitura, alla evocazione di un plesso di amore/morte/necrofilia. Elementi, questi ultimi, che possono darsi in sequenza in termini di fabula o di intreccio, ma che la musica, come l’inconscio, può invece sovrapporre, come fa Strauss per tutta l’opera, cedendo alla logica di un registro più univoco – ma ne va dell’ottenimento del desiderio – solo nella Danza dei sette veli. Qui Pierluigi Pizzi, per il resto così sobrio nel connotare gesti e reazioni, e attentissimo a non interrompere la focalizzazione sulla protagonista, concede con l’apporto di danzatori il giusto rilievo a una rappresentazione di “fatti”, in cui si tiene conto anche del desiderio di un altro personaggio.
Ma anche la danza resta coerente con l’assunto di base. Le fasi salienti del disvelamento del corpo avvengono proprio nei pressi della buca: il tetrarca guarda e brama, ma da lontano; la danza, in realtà, è per il Battista, che non la può vedere ma solo immaginare. Chiamare con questa regia un direttore come Günter Neuhold, radicato nella frequentazione del repertorio tedesco, si rivela una buona scelta. Neuhold sollecita l’orchestra del “Bellini” a una resa intensa della partitura, della sua sontuosa strumentazione, dei suoi stridori e delle sue sinuosità, dominandone nello stesso tempo la tenuta ritmica in relazione alle linee vocali. Jolana Fogasova nel ruolo di Salome svetta nel cast per la resa accesa e sensuale, prestando al ruolo un timbro decisamente adatto, a partire dalla corposità del registro acuto. La ”cornice” è di buon livello, con Arnold Bezuyen (Erode), Sebastian Holecek (Jochanaan), Janice Baird (Erodiade), Karl Michael Heim (Narraboth). Successo ben meritato, a dispetto del demone che spesso si accanisce sulle prime dell’opera, e stavolta ha scelto di causare dei black out nei sopratitoli.
[/restrict]