di Giampiero Cane
A 72 anni dalla sua prima, che ebbe luogo a Londra nel 1945, è arrivata sulla scena del Comunale di Bologna, la pièce di Benjamin Britten, Peter Grimes, il cui libretto fu tratto da un poema di George Crabbe, The Borourgh. Si tratta di tempi che suggeriscono qualche riflessione sul significato da dare all’attribuzione del titolo di “città della musica” che una commissione europea ogni tanto gioca sul tavolo verde il poker delle onorificenze e che anni fa arrivò a sorpresa in questo capoluogo emiliano, più dotto che colto.
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Trascurando i meriti che la città musicale potrebbe vantare per singoli, rari spettacoli e sporadici concerti, l’unica iniziativa di alta qualità progettuale maturatavi nel dopoguerra è da considerare sia stata il festival del jazz degli anni Sessanta, prontamente scivolato nella bassa routine con la nascita di Umbria Jazz, ormai Brasilera Umbra, e mai rinato a dignità di menzione. Essendo volata in cielo l’attività cameristica che si svolgeva in Sala Bossi (conservatorio) per ascoltare un quartetto degno s’è dovuta attendere l’iniziativa del Bologna festival con un cartellone che continua in pompa magna con la routine di due / tre secoli fa, e ha un angolo disertato dal pubblico con qualcosa del 900 o di pre moderno.
Comunque, il debutto bolognese di Peter Grimes è stato incorniciato da una buona giornata per il Comunale, giacché il teatro ha ricevuto le dimissioni da Direttore principale ospite di Ezio Bosso, assurto a un ruolo che non corrispondeva alle sue qualità per iniziativa del sindaco della città, Virginio Merola, sostituitosi al prono sovrintendente Nicola Sani, nel nominarlo. È una persona per bene che ha una gran passione musicale, ma a mio parere una visione alquanto confusa. Ebbe un buon successo un anno a Sanremo, dove di musicale c’è quel che c’è, ma che ha un livello che evidentemente egli padroneggia. Però di fatto ha uno strano ascendente su qualcuno del PD se, dopo queste sue dimissioni il suddetto Merola e anche la Regione Emilia-Romagna si sono schierati a suo sostegno chiedendogli di recedere e, la seconda minacciando tagli economici al Teatro. Non siamo nello spazio limitato di una “città della musica”, ma in un ambito regionale da Piacenza al mare con 6 teatri che fanno anche opera, con la Ca’ del Liscio e chissà quante discoteche..
Ma è ora di tornare a Peter Grimes e alla felice, originale musica che lo qualifica. E’ una pièce cupa, che descrive la situazione pesante della vita di un borgo, stupido come forse la generalità dei borghi, chiuso nelle sue abitudini e in quelle in cui si appagano i suoi abitanti. Hai l’impressioni che vi regnino l’alcol e l’incupita sbronza rituale di tutti i giorni che son tutti sabato sera. All’alcol s’aggiunge il casino (la casa di tolleranza) nel che si trasforma per scelta registica “The Roar”, pubblico locale sulla piazzetta. Niente sembra essere capace di modificare il trascorrere del tempo se non l’infelice Grimes, non ribelle, ma angosciato gran pescatore cui, a quanto pare, tutto va storto.
In questo posto, uno dei più bei borghi inglesi forse per la TV di quel paese (se è stupida come la nostra) la scena si apre con un processo piuttosto sommario nei confronti di Grimes, imputato di colpa per la morte in mare del giovane apprendista che l’accompagnava. La conclusione è ch’egli sia morto senza sua colpa, ma con una diffida dal servirsi ancora di un qualche giovane per condurre la propria barca. D’altro canto questa specie di sommario processo non la luogo con una corte regolare e Grimes dice di sapere che “le accuse che nessuna corte [gli] ha mosso” resteranno in testa alla gente. Egli vorrebbe protestare la sua verità, ma ne è impedito.
Alla fine gli viene assegnato un apprendista che sta in un orfanotrofio e che viene portato nel borgo durante una notte tormentata dagli eventi del recente passato a da un uragano.
Naturalmente, anche quest’altro ragazzo poi morirà, non si capisce bene se cadendo nella scogliera o in mare aperto, ma non ha importanza. Grimes, bubbone nella sana vita del paese, verrà invitato ad annegarsi e così farà, a suo tempo, a conclusone dell’opera.
Ma veniamo a Britten. Egli non è mai stato un musicista d’avanguardia, ma oggi questa non è una colpa, anzi. Però, anche quando la legge era quella di Darmstadt Britten aveva il suo seguito. Chi avesse avuto orecchi e non avesse pensato che la musica in quanto arte dovesse essere prima di tutto un prodotto della mente, ma anche un “oggetto sonoro” sensibile, avrebbe sentito in qualche modo il fascino di questo compositore. Ebbe un costante successo, un po’ fuori del quadro, ma certo. Nelle sue musiche trovavi qualcosa che sfidava il primato dell’idea per darti un ben solido corpo sonoro.
In questo Peter Grimes, non ci fosse altro intervengono momenti orchestrali che non commentano e non interrompono un’azione che non è scritta, ma che chiede di manifestarsi nel continuare della musica. Sono come degli interludi, tanto apprezzati da entrare a far parte del repertorio sinfonico concertistico, ma che non debbono essere chiusi.
Costituiscono un bel problema registico, ma hanno il senso di un momento astratto dalle parole che si protende verso la scena per essere continuato in essa. Non farlo e suonare queste musiche calando un siparietto significa rinunciare a questa sfida e a questo spazio-tempo di integrazione e collaborazione creativa al dramma in oggetto. E però, quello che è stato fatto in questo allestimento è proprio questa rinuncia, e quest’assentarsi dice la rinuncia interpretativa della regìa. Che senso hanno, però? Ciascuno potrà arzigogolare sul quesito, ma di fronte a un dramma nel quale l’idiozia domina e pervade la scena, mai piegata da un tratto umano sovrastantele, questa musica è, a nostro dire, la musica della natura, impassibile e implacabile; è come il segno di un lontano pensiero leopardiano che viene a dire il proprio ineluttabile di fronte all’impotenza umana, mentale prima ancora che fisica.
Tutto in quest’allestimento procede bene, ma qui in questa espulsione della scena s’apre un vuoto che non ha senso. Magari uno è anche contento, perché la scena è piuttosto brutta e monotona, roba daCavalleria Rusticana, magari; ma anche se è così, ci si abitua ad avere davanti quattro casette, una facciata di chiesetta col tetto a punta e dietro un grande arco che, se vuoi interpretarlo, è difficile non pensare a un sostegno in cemento armato per una sovrastante autostrada che non vedi e non c’entrerebbe nulla. Però ti abitui, mentre non c’è modo di abituarsi all’assenza di qualcosa che dovrebbe esseri e non c’è. Questo potrebbe essere anche un paesaggio nel senso in cui di ciò scrisse Georg Simmel, nei termini più banali l’oggetto riprodotto in una cartolina, con stampato “baci e abbracci da…”.
Sembra che lo spettacolo sia stato ripreso da un allestimento di Modena, ma ce lo potevano risparmiare: tanto la produzione è apprezzabile, quanto indifferente, se non noiosa, alla vista. Sciolto e convincente è il lavoro del direttore d’orchestra Juraj Valcuha, ma perde un po’ di vigore nella seconda scena dell’ultimo atto. Tra la prima e la seconda scena non c’è distacco temporale, ma solo uno spostamento del centro: prima siamo nei pressi della capanna di Grimes, qui una piccola roulotte su due ruote, poi nella solita piazza. Ciò ha effetto sul sonoro perché le urla contro Grimes passano dal primo piano a uno esterno, ma nella realizzazione perdono d’intensità emotiva, sembrano entrare in un ricordo, il che non avrebbe senso. Nella piazza un comprimario, il capitan Balstrode suggerisce a Grimes di prendere il largo con la sua barca e a buona distanza affondarla. Gli suggerisce il suicidio reso necessario dall’incompatibilità con lo stupido borgo. Grimes si mette in moto, sparisce dalla nostra vista, ma i paesani lo vedono, vedono la barca affondare e probabilmente non capiscono.
Grimes era Ian Storey, un gran solitario avvilito. Baltrode, Mark Doss, un rude vecchio marinaio che capisce e non partecipa. Degne di nota le presenze di Charlotte-Anne Shipley, l’unica speranza di Grimes, ma non raggiungibile; la Sedley invelenita contro Grimes di Kamelia Kader; Gabriella Sborgi, la proprietaria del bar-casino, e le sue “nipoti”, Chiara Notarnicola e Sandra Pastrana.Da ribadire che quel che non ha funzionato qui è stato lo spettacolo; il concerto sonoro andava benissimo.
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