di Santi Calabrò foto © Rosellina Garbo
PER GIORGIA GUERRA, regista del Werther andato in scena a Palermo (in coproduzione con Auditorio de Tenerife), nel capolavoro di Massenet è in questione solo un’attrazione fatale che si conclude con un suicidio. Si può trovare allora una cornice migliore di un drammone cinematografico degli anni ’30 o ’40? Non si può. “Che peccato che due talenti come Goethe a Massenet siano nati troppo presto e non abbiano potuto lavorare per il cinema!”, si sarà detta la regista. Un approccio così naïf poteva essere l’occasione per un trionfo del Kitsch. È andata un po’ meglio: sia perché Giorgia Guerra ha l’istinto per non far debordare troppo la sua idea; sia perché, nel passaggio dai Dolori del giovane Werther (1774) all’opera di Massenet (oltre un secolo dopo), il risultato non è un monolite resosi compatto dopo una metamorfosi, ma un organismo che mantiene in vista le sue stratificazioni e le armonizza. L’intero Ottocento, dalla sua alba precoce al declino, può riassumersi nel Werther di Massenet, e per questo l’opera può anche essere riletta da una delle sue angolazioni più problematiche.
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È possibile «minacciare metodicamente la struttura per percepirla meglio, non solo nelle sue nervature, ma in quel punto segreto in cui si rivela non più erezione o rovina, ma labilità» (Derrida). Il “punto segreto” del Werther, il momento in cui si lancia un guanto di sfida alle leggi delle forme poetiche – dal romanzo epistolare al dramma lirico –, cade alla metà dell’opera: Massenet vince la sfida, ma la torsione resta visibile. Finito il secondo atto, Werther allude già al proposito di suicidarsi. Ci si può a questo punto legittimamente domandare a cosa serviranno altri due atti: una cosa è commentare uno snodo di vita con una serie di lettere che esibiscono un progressivo delirio e infine chiudere la partita con un colpo di pistola, un’altra cosa svolgere la seconda metà di un’opera a partire dallo stesso punto e con lo stesso esito. Il problema viene eluso grazie ai tormenti di Charlotte, che diversamente dalla Lotte di Goethe ricambia la passione di Werther.
Quando nel Terzo atto Massenet presenta Charlotte come un’aspirante Emma Bovary, in termini psicologici cambia molto. Se Werther riprende la determinazione al suicidio, essa non deriva più da un amore impossibile e dal folle straniamento, come poteva sembrare nella prima parte dell’opera (dove maggiormente resistono i legami con Goethe). Qui Werther è sicuro di essere corrisposto; tuttavia l’amata si nega. A questo punto il suicidio cambia di segno, virando verso una sorta di “verismo” – il che è già un evento. Ma dove poggia – in senso artistico – il fondamento credibile della fatale risoluzione di Charlotte al rifiuto? La musica e il testo compiono il miracolo. Basti pensare alla baldanza di Pourquoi me réveiller: Werther esibisce un certo trionfalismo vocale, ma il tema è già stato in precedenza connotato in quanto tema di sconfitta. Il suo ritorno nel momento della tentata seduzione, più che cambiarne il significato, insinua la sensazione che, propriamente, non ci sarà alcuna conquista!
Quanto al testo, nelle tirate sentimentali di Charlotte e di Werther troviamo l’elemento decisivo: il ricordo è infatti la loro materia, quando pure il presente avrebbe tutti i numeri per imporre le sue ragioni. Il passato viene idealizzato, e la sua trasfigurazione, spesso incongrua, indica un pessimo rapporto tra mondo psichico e realtà del tempo presente. In tutta l’opera le cose vanno avanti – e indietro – così: e cosa fa la Guerra nei primi due atti? Veste da subito i suoi due eroi come se partecipassero a una festa a Casablanca; per di più, dai loro gesti, i due sembrano pronti a saltarsi addosso. Soprattutto Veronica Simeoni (Charlotte) nella prima parte dell’opera è a tratti inguardabile, e tutta l’arte di Massenet per rendere organicamente credibile il suo dramma sembra tendere a un’eleganza quasi superflua, quando in realtà è struttura. Che invece il drammone deflagri nei due atti conclusivi ci può anche stare, con i due amanti virtuali e perciò sofferenti nella cornice da salotto anni ’30.
Come in un film strappalacrime, questo Werther corre verso la sua conclusione, e su di essa orienta anche tutto il retaggio più distintamente goethiano dei primi due atti. Dire che questa sia una lettura profonda o memorabile sarebbe temerario; tuttavia lo spettacolo tiene, le scene di Monica Bernardi non si sottraggono all’idillio, al panismo, agli affetti domestici, alle cornici di sentimenti ed eventi borghesi dei primi due atti, e la presenza di una parte musicale di peso assicura un buon successo. Omer Meir Wellbe dirige bene, entrando nella rete di motivi dell’opera con un respiro sinfonico mantenuto nei termini del lirismo dominante, e guida con efficacia l’orchestra palermitana. Francesco Meli è un Werther intenso ma di distinta musicalità, dal colore elegante, soprattutto nella conduzione del registro medio. Veronica Simeoni non si accontenta di essere solo l’alter ego di Werther – tradizionalmente si dice questo della Charlotte poco goethiana che si manifesta dal terzo atto dell’opera di Massenet -, ma si allinea anche al sentimento della regista: fatto sta che canta meglio proprio dopo il secondo atto! Christian Senn conferisce dignità e cattiveria al ruolo di Albert, e Serena Gamberoni è una vivace Sophie. Applausi.
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