di Gianluigi Mattietti
Creati nel 2006 da Ádám Fischer, i “Budapest Wagner Days” nascevano con un’idea ambiziosa: creare un festival dedicato alle opere di Wagner, con grandi cantanti wagneriani, con allestimenti fatti su misura per la Sala da concerto Béla Bartók al Müpa (Palazzo della Musica), per sfruttarne la straordinaria acustica. Il successo è stato immediato, la tradizione del Wagner primaverile in Ungheria si è consolidata negli anni, e il Müpa è diventato uno dei punti di riferimento per tutti i wagneriani del mondo, una specie di Bayreuth sulle sponde del Danubio. Anche quest’anno c’è stata una ripresa del Ring in quattro giorni consecutivi: una forma semi-scenica, ma che appagava veramente gli occhi, e sembrava corrispondere molto bene all’idea wagneriana di Gesamtkunstwerk.
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La lettura teatrale del regista Hartmut Schörghofer sfruttava al meglio le caratteristiche della sala, che ha una fossa per l’orchestra e un palcoscenico utilizzabile integralmente. Via tutta l’oggettistica wagneriana (spade, lance, martelli, incudini), e al suo posto figure e gesti simbolici, di forte carica evocativa. Tutta la parte visiva si concentrava sui tre grandi schermi allineanti dietro il palcoscenico, che servivano per effetti di controluce, per giochi di ombre (nelle metamorfosi di Alberich, la sua ombra si deformava e diventava una specie di Nosferatu), per proiezioni spettacolari (i Nibelunghi scivolavano come rettili; le fiamme avvolgevano Brünnhilde; Siegmund correva ansimante nella neve; le montagne verdeggianti si trasformavano in città devastate). Nella Götterdämmerung si alternavano acqua e fuoco; scie luminose, come di strade notturne, sembravano l’intreccio dei fili delle Norne; le scene dei Ghibicunghi erano punteggiate da un video astratto, fatto di sagome nere che si muovevano in uno spazio completamente bianco; l’incanto amoroso si condensava su un magnifico primo piano degli occhi di Gutrune; le Rheintöchter nuotavano nell’acqua del Reno piena di scaglie dorate. Insomma, una continua, avvincente osmosi tra immagini realistiche e oniriche, tra i movimenti sulla scena e quelli proiettati sullo schermo. Mattatrice, in quest’opera, era la Brünnhilde di Iréne Theorin, magnifica guerriera, dalla voce copiosa, che riempiva davvero la scena. Notevole, per qualità vocali e accenti drammatici, anche l’Alberich di Péter Kálmán. Il tenore Daniel Brenna, si panni di Siegfried, è parso molto sicuro, con voce solida, in grande crescita rispetto all’anno scorso, anche se mancava di un vero squillo negli acuti. Vocalmente brillanti anche Oliver Zwarg (Gunther) e Polina Pasztircsák (Gutrune), mentre la voce di Rúni Brattaberg non era abbastanza tonante per Hagen, e tendeva a chiudersi negli acuti. Fischer, sul podio dell’ottima Orchestra sinfonica della Radio ungherese, ha offerto una lettura molto nitida, priva di enfasi ma piena di contrasti e di colori.
Le stesse qualità della direzione si sono apprezzate nel Parsifal, con in più una resa sinfonico-corale davvero sontuosa. Non una versione semi-scenica, ma un allestimento con tutti i crismi, realizzato dal collaudato duo Magdolna Parditka e Alexandra Szemerédy. Le due giovani artiste, già molto attive e apprezzate nei teatri tedeschi, hanno saputo sfruttare in modo davvero spettacolare le ampie balconate che percorrono tutto il perimetro interno del Müpa, come spazio scenico diffuso, che ospitava vari personaggi, il regno malefico di Klingsor, le masse corali che si schieravano in gruppi ordinati, dopo avere attraversato tutta la platea con processioni solenni. Tutto lo spazio scenico si riduceva a due piani collegati da piccole scalinate, completamente bianchi, ricoperti da un velo nero, che scompariva per metà nel secondo atto, e completamente nel terzo. Tutto era ottenuto con pochi mezzi, con un bel gioco di luci (di Károly Györgyfalvai), riflesse anche dalle canne dell’organo che troneggia sul fondo della sala, e con pochi colori simbolici: il contrasto tra il bianco e il nero (Il regno del Gral e quello magico di Klingsor), e alcune punteggiature di rosso, come il sangue che usciva copioso dal petto di Amfortas, o come l’abito di Kundry, seduttrice, nel secondo atto (nel primo era in nero, nel terzo era vestita con un peplo bianco). Accanto alla dimensione ieratica, c’era una recitazione molto curata, fatta anche di confronti molto realistici, quasi sanguigni, tra i personaggi (soprattutto tra Parsifal e Kundry), e la sensualità delle fanciulle fiore, che provocavano Parsifal in mise sexy. Straordinarie le voci: Parsifal era Peter Seiffert, wagneriano di lungo corso a Bayreuth, che restituiva bene i due lati del suo personaggio, l’eroe giovanile e irrequieto, e il cavaliere puro, santo e carismatico, con musicalità e una voce sempre a fuoco; intensa, di grande personalità, Violeta Urmana era perfetta nel ruolo di Kundry; Albert Pesendorfer caratterizzava molto bene Gurnemantz, e con una voce bellissima, piena, sonora, omogenea in tutti i registri; di grande presenza, vocale e scenica, anche il Klingsor di Jürgen Linn, con il suo sguardo diabolico, illuminato di rosso; da vero attore drammatico (e con perfetta tecnica vocale), Lauri Vasar interpretava un Amfortas scalzo, emaciato, tormentato, in catene, maltrattato da tutti, quasi un folle che sgranava gli occhi, si spogliava, si muoveva dinoccolato, inciampava e cadeva, vera incarnazione della sofferenza.
La novità quest’anno al Müpa era Rienzi, titolo che non fa parte del “canone” di Bayreuth. Lo ha diretto Sebastian Weigle, con la Filarmonica ungherese, in un’esecuzione in forma di concerto. Weigle è un grande espero dell’opera, che ha già diretto e registrato (in un’incisione live nel 2013 con l’Orchestra dell’Opera di Francoforte: OEHMS classics OC 941), e che ha sottoposto a drastici tagli, eliminando il balletto del secondo atto (complessivamente ridotto di circa venti minuti), e cancellando una buona mezz’ora dal terzo (opera in effetti lunghissima che Wagner aveva suggerito – anziché tagliarla – di rappresentarla in due serate consecutive, aggiungendo anche un nuovo preludio per la seconda parte). La sua lettura era attenta ai dettagli e allo stile “protowagneriano”, ma anche abilissima nel rendere avvincente il discorso musicale, evidenziando i contrasti, i giochi armonici, le invenzioni timbriche che vivificano la partitura. Nei panni del protagonista era Robert Dean Smith, altra vecchia conoscenza a Bayreuth, che ha retto l’impervia parte con determinazione, ottima tecnica e straordinaria resistenza. Grande personalità ha dimostrato il soprano Emily Magee nei panni di Irene. Ottimo il basso Falk Struckmann come Steffano Colonna, nonostante qualche vuoto nel grave, e il mezzo Michelle Breedt, di grande temperamento nel ruolo “en travesti” di Adriano. Notevoli anche il basso Boaz Daniel (Paolo Orsini), il tenore Szabolcs Brickner (Baroncelli) e il baritono Marcell Bakonyi (Cecco del Vecchio).
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