di Luca Chierici
La produzione italiana giovanile di Meyerbeer resta ancora oggi poco conosciuta per gli ascoltatori non specializzati che, a dire il vero, non hanno neppure molte occasioni di ascoltare da noi i grandi titoli del Grand-opéra che hanno assicurato al musicista un posto d’onore nella storia del melodramma. Recuperati solamente all’interno di festival specializzati o tramite registrazioni discografiche di culto, o addirittura non ancora riscoperti, titoli come Emma di Resburgo, L’esule di Granata, Romilda e Costanza sono allo stesso tempo di grande interesse sia per verificare lo stato di una koiné linguistica che si sviluppa attorno agli anni ’20 del secolo diciannovesimo, anche indipendentemente dall’esempio catalizzatore di un Rossini, sia per individuare preziosi elementi di raccordo con la produzione successiva, più nota, dell’autore.
Margherita d’Anjou, nata in italiano nel 1820 (al Teatro alla Scala) e ripresa con successive aggiunte e modifiche nel 1826 per il pubblico francese, conobbe un successo notevole per circa vent’anni per poi sparire totalmente dalle scene ed essere recuperata in veste discografica solamente quindici anni fa. Quella di Martina Franca è quindi la prima ripresa scenica in tempi moderni, scelta che fa di nuovo onore al festival della Valle d’Itria.
Il regista Alessandro Talevi ha operato una scelta di ambientazione piuttosto drastica anche allo scopo di evitare l’equivoco insito nello stato di “opera semiseria” proprio di questo lavoro di Meyerbeer, il cui ondeggiare nei caratteri sembrerebbe non più compatibile con l’estetica del moderno. Del resto le fonti del libretto sono eterogenee e tra gli eventi storici (o presunti tali) e il testo finale di Felice Romani esistono passaggi intermedi che risalgono fino al “Riccardo III” di Shakespeare. L’episodio, tratto dalle leggende sorte attorno al periodo della “Guerra delle due rose” evocanti la figura di Margherita d’Anjou, vedova del re Enrico VI, si rivela spesso, è vero, un pretesto per far muovere autonomamente i cantanti ed esibire con tecnica sopraffina l’arte di utilizzare le voci secondo miscele inedite (in questo caso vi è la presenza di tre registri di basso). E da un certo punto di vista non è davvero necessario, in questa come in molte altre opere non bene caratterizzate che affollano le biblioteche musicali, cercare un nesso tra la musica e gli eventi storici: è già tanto se l’autore riesce a entrare nelle corde dei personaggi principali e applicare tutta la retorica del melodramma nel descrivere una drammaturgia i cui temi di sostegno possono essere traslati in tutt’altro contesto. Il rischio opposto, però, è quello di concludere che il trentenne Meyerbeer non fosse in grado di commentare con la propria musica un soggetto storico e drammaturgico complesso,con la presenza di numerosi personaggi principali.
Il corso degli eventi storici viene già travisato nel libretto di Romani, dove la complessa vicenda che ha per protagonisti il Duca di Glocester e Margherita d’Anjou viene adombrata dalla più romantica storia personale del Duca di Lavarennee della moglie Isaura. Tanto che l’opera si conclude con un’aria variata affidata a Isaura, lasciando da parte il contesto storico e concentrando l’attenzione sul rinnovato e ritrovato rapporto di coppia tra la stessa e il marito.
Talevi inventa di sana pianta una trama complementare che ai tempi di Meyerbeer non era nemmeno immaginabile.Egli trasforma fin dall’inizio l’evidente carattere militaresco dell’Ouverture in un richiamo a un evento contemporaneo e molto meno patriottico, l’inaugurazione di una “London fashion week” all’interno della quale le dinamiche del soggetto originario vengono traslate con una certa dose di consequenzialità. Lo spostamento di coordinate è infatti rispettato fin nei dettagli – cosa che spesso non accade e che determina il fallimento di molte trasposizioni di questo genere – e rende credibile la creazione di uno spettacolo parallelo, che sulla carta poteva risultare anche divertente. Ecco allora che la Regina Margherita è una designer di successo, Lavarenne un giovane cantante pop, il duca di Gloucester un magnate della stampa e via dicendo. Non è più necessario, a questo punto, sostenere un confronto tra il plot originario e la sequenza dei numeri musicali, cosa che ci permette di ammirare davvero per quello che è lo straordinario virtuosismo richiesto più volte da Meyerbeer ai cantanti, senza dover giustificare a tutti i costi l’abbinamento tra estro vocale e carattere dei personaggi.
Certo, spesso è necessario non fare proprio caso alle parole che sono alla base di tanta dovizia canora, perché si rischia di vivere una situazione completamente schizofrenica, dove la dialettica tra i “nuovi personaggi” è sostenuta da dialoghi che parlano di guerre, battaglie, onor di patria e dove i flash dei fotografi sostituiscono gli squilli di tromba. E una volta inaugurato questo gioco degli equivoci risulta molto difficile tenere conto dell’evolversi della situazione, tanto che lo spettatore ne esce piuttosto disorientato. Ci si limita dunque a seguire la successione dei numeri musicali – che riserva qualche sorpresa – e ad apprezzare una musica scritta con grande sapienza e sensibilità. Non vi è neppure da insistere sui “rossinismi” spesso tirati in causa quando si parla della produzione italiana di Meyerbeer: è vero che il pesarese precede di qualche anno l’inizio dell’attività italiana del collega, ma è stato anche dimostrato che lo stesso Meyerbeer anticipa a volte atmosfere che si ritroveranno, di lì a pochissimo, in opere come “La donna del lago”. Siamo invece di fronte a un linguaggio i cui temi principali erano nell’aria in quella felicissima stagione e che vengono, da Meyerbeer e da tanti compositori contemporanei, elaborati in maniera più o meno sapiente, con minore o maggiore senso del teatro.
Il compito di traghettare l’opera di Meyerbeer in questo contesto piuttosto strano è stato affidato all’esperta bacchetta di Fabio Luisi, che a propria volta si è servito della nuova edizione critica dell’opera messa a punto pochi anni fa da Paolo Rossini e Peter Kaiser per Ricordi. Luisi è sembrato però non del tutto a proprio agio nel vivificare un repertorio che richiederebbe un maggiore grado di improvvisazione nelle fioriture e nelle estensioni vocali dei cantanti, come in parte si ascolta nella già citata registrazione discografica. A rinnovare e a rileggere le prodezze canore del cast originale (Rosa Mariani, Nicola Tacchinardi, Nicolas-Prosper Levasseur tra gli altri) e di quello discografico ( Daniela Barcellona, Bruce Ford…) sono stati chiamati cantanti che a vario titolo hanno sostenuto i rispettivi ruoli in maniera egregia con una particolare lode per l’Isaura di Gaia Petrone e la Margherita di Giulia De Blasis. Il basso buffo Marco Filippo Romano ha prestato la propria voce e la propria verve al personaggio alquanto sopra le righe di Gramautte e il basso Anton Rositskiy se l’è cavata egregiamente nell’affrontare la parte proibitiva di Lavarenne. Parte che presentava difficoltà non banali nell’agilità e nel registro acuto come del resto accade per quella di Margherita nell’unica versione discografica esistente, qui apparentemente mitigata ad opera dei revisori. Si ha avuto in altre parole la sensazione che molti dei ruoli principali abbiano conosciuto, ai tempi delle prime esecuzioni, delle realizzazioni che lasciavano molta più libertà all’estro improvvisatorio dei grandi cantanti dell’epoca. Riccardo, Duca di Glocester – parte che ha nel libretto un’importanza maggiore di quella effettivamente assegnatagli in musica – era l’autorevole Bastian Thomas Kohl. Al termine dell’esecuzione vi sono stati alcuni dissensi per il regista ma notevoli applausi per il cast intero, il direttore e il bravo violino primo che si era sobbarcata la fatica non indifferente di sostenere la parte obbligata in una grande aria di Margherita.