di Luca Chierici foto © Carmine La Fratta
Non è facile, in una realtà pugliese che annovera eventi quali il Festival della Valle d’Itria o teatri come il Petruzzelli dedicare a Paisiello una rassegna monotematica, ovviamente ospitata dalla città di Taranto, dove il grande compositore nacque nel 1740. Quella del Festival Paisiello è una attività – oggi al suo quindicesimo anno di vita – che se non può vantare una ricchezza di titoli numericamente cospicua si sta allargando intelligentemente avvicinando a un paio di produzioni teatrali anche concerti e altri eventi culturali di tutto rispetto. E se il tutto avviene con una certa economia di mezzi, nondimeno i risultati corrispondono a una realtà di eccellenza raggiunta con l’intelligenza delle scelte e con l’entusiasmo dei partecipanti.
Il Barbiere di Siviglia (1782), uno dei capolavori del Paisiello “buffo” , era già stato messo in scena nel 2005, e già allora sulla scorta della nuova edizione critica a cura di Francesco Paolo Russo. Forse l’attività di quest’anno si poteva estendere a qualche nuovo titolo raro, nonostante le difficoltà nel predisporre una edizione moderna per moltissime opere che sono rimaste sepolte negli archivi ancora nello stato di autografo o di copia di manoscritti. Del resto questo Barbiere è a posteriori ben noto anche e soprattutto per il confronto con il più noto capolavoro rossiniano, che già a quei tempi (1813) aveva fatto sorgere un contenzioso non da poco, tanto che al nuovo cimento rossiniano fu riservato un famoso fiasco al Teatro Argentina.
Contenzioso che nacque a priori per il fatto che il giovane Rossini si era permesso di mettere in scena un lavoro che sfruttava lo stesso libretto di quello di Paisiello (un testo per il quale gli studiosi hanno da tempo sfatato l’attribuzione a Petrosellini, e che è molto simile a quello riammodernato dallo Sterbini per il pesarese) anche se partendo da presupposti musicali del tutto differenti: questioni stilistiche per le quali, a quei tempi, trent’anni di distanza equivalevano a cento anni nel panorama odierno.
Non è il caso qui di riprendere il tema del confronto tra i due Barbieri, tantomeno un confronto puntuale (un esempio a caso, il Pace e gioia dal quale l’opera di Paisiello esce molto ridimensionata) o addirittura quello con le mozartiane Nozze di Figaro del 1786, che attiene al terzo e ultimo anello della trilogia di Beumarchais. È opportuno invece sottolineare come una messa in scena, lo stesso porgere dei cantanti, la concertazione e direzione d’orchestra debbano pensare in sintonia con un lavoro che se apparentemente non è molto lontano dal punto di vista cronologico dai due esempi appena citati, lo è invece da quello stilistico e di costume. Ma non è neppure lì il punto: il linguaggio musicale e teatrale di Mozart è così avanti per i tempi che nessuna opera di Paisiello sarebbe nemmeno accostabile che so, a un Idomeneo o a un Ratto dal Serraglio che vennero composte in quegli stessi anni o poco prima. Quello di Paisiello è però un lavoro che funziona a pennello nell’ottica del teatro d’opera convenzionale e di esportazione di origine settecentesca che tutto il mondo ci invidiava, e ogni altro paragone è da evitare.
Lo spettacolo diretto da Gianmaria Aliverta si muove in estrema economia di mezzi (una scena fissa che più povera non si può, forse meglio era lasciare bene in vista una parte del magnifico chiostro del convento di Sant’Antonio, recentemente restaurato) ma con grande inventiva, che sfrutta al massimo le capacità attoriali dei cantanti chiedendo loro di partecipare alla vicenda con movimenti e atteggiamenti sempre adeguati e mai troppo caricati. Ecco allora che soprattutto il Conte e Figaro, Rosina e Don Bartolo danno vita a uno spettacolo che ci fa capire come, a quei tempi, si era soliti dire che le opere buffe di Paisiello non si potevano solamente ascoltare: era necessario vedere agire in teatro i protagonisti per meglio assaporare la vitalità che l’autore infondeva in ciascun carattere.
Sopra tutti si è distinto Néstor Losàn, Conte che alla bellezza della voce univa una presenza scenica che scaturiva da una innata capacità di agire in teatro. Accanto a lui il Figaro complice di Gabriele Nani, baritono del quale si notavano forse più le qualità sceniche, essendo del resto la sua parte priva di momenti veramente eccelsi dal punto di vista musicale (e anche qui il paragone tra l’aria della calunnia di Paisiello e di Rossini non giova certo al primo compositore). Forse eccessivamente seriosa era la Rosina di Graziana Palazzo, che si muoveva e cantava con una malinconia che sarebbe stata più appropriata per un Rosina già divenuta Contessa. Rosina è però, per il regista, una damina elegante e vezzosa – anche se già ribelle – che piano piano acquista consapevolezza e libertà, una consapevolezza che viene sottolineata anche dal cambio di costumi (dai merletti ai jeans). Esuberante e comico era ovviamente fin dall’inizio, come da tradizione, l’incedere del Don Bartolo di Luca Simonetti. Bravi i comprimari, con una eccellenza per il Don Basilio di Luca Vianello. Un elogio particolare va indirizzato all’orchestra da camera del festival, diretta da Fabio Maggio, guida appassionata che si è dovuta anche assoggettare a qualche capriccio registico fuori programma. E un ulteriore elogio va indirizzato al mandolinista Luciano Damiani, che ha accompagnato la bellissima serenata di Lindoro, già utilizzata da Kubrik per il suo Barry Lindon cinematografico.