di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
ASSENTE DA QUASI VENT’ANNI dalla Scala (e l’ultima volta, con Runnicles e Pier’Alli, non si trattò certo di uno spettacolo particolarmente memorabile) il Freischütz di Weber è riapprodato nel teatro milanese puntando sulla presenza di un cast vocale ragguardevole, di un direttore oggi considerato carismatico e di un apparato scenico-registico che si presentava – sulla carta e in base alle dichiarazioni rilasciate nel corso di una lunga conferenza stampa – assai promettente. Il punto di partenza del regista Matthias Hartmann è rappresentato dalla presenza incombente del Male, un male oscuro presente in tutti noi e che non si limita a regnare sovrano nella celebre scena della “gola del lupo”, quando il protagonista Max, tiratore esperto ma divenuto un poco maldestro per quella che oggi si potrebbe chiamare “ansia di prestazione”, si lascia traviare dalle promesse del compagno Kaspar. Quest’ultimo invocherà il demonio, per materializzare le pallottole magiche che permetteranno a Max di uscire vittorioso dalla prova di tiro al bersaglio richiesta per ambire alla mano dell’amata Agathe, in una scena che divenne un topos per tutto il teatro romantico e che comunica ancora oggi un senso di smarrimento e di paura tramite un indovinatissimo utilizzo di pochi e semplici espedienti musicali.
Ecco allora che questa premessa giustifica la scelta di una scenografia ove il tetro paesaggio di alberi neri e quasi pietrificati domina il contesto dall’inizio alla fine, come a testimoniare la presenza continua del conflitto. In realtà alla versione edulcorata della vicenda, ossia alla redenzione di Max e al suo ricongiungimento con Agathe, non credette quasi nessuno, a partire da Weber stesso, come è efficacemente ricordato da un intervento di Michael Küster nel programma di sala. La scena demoniaca era ed è tuttora il nucleo fondamentale del Freischütz e attorno ad essa ruota tutta la vicenda e quindi la chiave di lettura dell’opera teatrale. L’interpretazione psicanalitica del regista non è quindi nuova e tra l’altro più nelle intenzioni di Hartmann che nella effettiva rappresentazione alla quale abbiamo assistito. Tanto che il carattere noir dell’insieme si è alla fine ridotto ad una comparsa di diavoletti quasi consenzienti alla piega buonista del racconto: una conclusione che faceva del tutto dimenticare lo sconvolgente momento del sortilegio demoniaco.
I punti di forza di questo allestimento erano allora più da ritrovare negli inserimenti architettonici di alcuni luoghi tipici (la casa del guardaboschi, la camera di Agathe, la chiesa del villaggio) stilizzati attraverso rapide pennellate di luci al neon, disegnate da Raimund Orfeo Voigt e realizzate da Marco Filibeck. E soprattutto nella scelta di magnifici costumi – splendidi soprattutto quelli femminili – effettuata da Susanne Bisovsky e Josef Gerger. Di contro i travestimenti diavoleschi facevano parte, come si è già accennato, di un patrimonio di tradizione da dimenticare, oggi non più proponibile.
Né si può dire che la lettura musicale dell’opera e le prestazioni dei cantanti siano stati particolarmente in sintonia con la messa in scena. Chung ha diretto con bravura ed eleganza, forse sottraendo all’insieme quel sano carattere di grossolanità che è pur presente nella descrizione di contadini, popolani, tiratori più o meno scelti. In tal senso se il direttore ha saputo evocare lo spettro della paura nelle scene più evocative o la poesia di un fanciullesco innamoramento nelle arie di Agathe, mancava in alcuni momenti il ritmo paesano e fortemente cadenzato tipico di molta musica di Weber. Esemplari, anche se non capaci di cancellare molte memorie di interpreti storici del passato, sono stati gli interventi dei protagonisti, tutti più che applauditi a scena aperta. Il più applaudito dei quali, Günther Groissböck ossia Kaspar, il cacciatore maledetto, ha tra l’altro esibito un fisico atletico nella scena della fusione delle pallottole, quasi un Siegfried ante litteram alle prese con la forgiatura di Nothung (e i debiti wagneriani nei confronti di Weber e del Freischütz non finiscono certo qui). Più sottotono, ma musicalmente ineccepibile, il Max di Michael König mentre Julia Kleiter (Agathe) e Eva Liebau (Ännchen) hanno dato vita ai loro personaggi con partecipazione vera e squisita vocalità. Bravi i comprimari e decisivo l’apporto del Coro – protagonista anch’esso del capolavoro weberiano – guidato al solito da Bruno Casoni.
Molto bella la scena del sabba nel bosco che certamente ricorda volutamente alcune delle tele di Kaspar Friedrich con le grottesche figure dei diavoli richiamati da Samiel. Forse discutibili i costumi delle protagoniste e del coro un po’ troppo “casa di bambola”. Quanto al cast vocale si mantiene tutto su un buon livello con l’eccezione della Äennchen di Eva Liebau che unisce non comuni doti vocali a una fresca presenza scenica. Cosa che non si può dire di Agathe (Julia Kleiter) che si muove costantemente impacciata sul palcoscenico e la cui vocalità non ha nulla di eccezionale.